Di 0-cht71.
Ci è sempre piaciuto giocare con le parole.
Quando, nel 2013, indossando le pettorine gialle di Làbas con scritto “Operai per il comune”, invademmo la sede del Demanio, vecchio proprietario dell’ex Caserma Masini, alcuni impiegati ci scambiarono per operai del Comune. Il comune a cui alludevamo noi, però, aveva poco a che vedere con il Comune di Bologna. La parola “comune” stava ad indicare la ricchezza comune socialmente prodotta nel nostro spazio e la ricchezza comune che intendevamo riportare al centro della scena politica come oggetto di contesa per il futuro della città.
In più, comune, distinguendosi da bene comune, riprendeva il termine comunismo, ma non era il comunismo (chi ha seguito un po’ di dibattiti teorici degli anni ‘00 e ‘10 potrebbe andare avanti a lungo). Sta di fatto che ci scambiarono per semplici operai del Comune di Bologna.
Qualcuno, fuori da qui, ci ha anche preso in giro: “i disobba”, sì, continuavano a chiamarci così, anche se pochi di noi avevano vissuto il periodo dei disobbedienti, “i disobba mostrano veramente chi sono, compatibili con le istituzioni, moderati, fanno finto conflitto con i fuochi d’artificio, operai del Comune”. E invece, proprio facendo conflitto, di quel Comune ci siamo interessati partecipando alla tornata elettorale del 2016 proprio a partire da Làbas…ma questa è ancora un’altra storia. Il comune scritto con uno stencil, per quanto fosse una suggestione teorica, ci è servito all’epoca, a noi e a tanti altri, per indicare qualcosa di non riducibile al privato e nemmeno al pubblico, per opporci al deserto e dare nuova forma alla città. Non sappiamo se contenesse in sé anche il Comune come municipio. Era prima di tutto una suggestione politica e una metafora concreta del mondo che vivevamo o del mondo che volevamo.
Oggi, se ci pensiamo bene, dal punto di vista linguistico le cose sono ancora più complicate. Gli impiegati del Demanio andrebbero in tilt a vederci con delle pettorine con scritto “municipio sociale”. Il municipio non è il Comune – e questo l’abbiamo capito – non è un’unità amministrativa ben definita, ma non è nemmeno più quella sperimentazione degli zapatisti che sì, era lontana, ma era concreta, il Municipio Autonomo.
Allora cosa sono questi municipi sociali?
L’intuizione è stata discussa e “deliberata” un paio di anni fa e, nel frattempo, siamo passati da 2 a 4 municipi. Il COVID ha accelerato una nostra presa di parola sul tema, per questo siamo qui a discuterne e apriamo lo spazio di ragionamento anche fuori da noi.
Prima di tutto, infatti, un municipio sociale non può essere una parola che usiamo solo tra di noi ma fuori di qui nessuno comprende (per un momento lasciamo perdere l’impiegato del Demanio). La sfida è quella di dire che i municipi sono spazi aperti e, forse, non sono più i centri sociali di una volta. Centri sociali, per dirla in breve: luoghi con cancello o portone da aprire e chiudere tutti insieme, collettivo di gestione, assemblea settimanale, quadro ideologico tutto sommato ben definibile, contesto culturale di provenienza dei suoi frequentatori abbastanza simile. Di tutte queste definizioni, parziali e abbastanza riduttive, una però è importante e suggestiva. L’immagine del cancello. L’indicazione del municipio sociale ci ha stimolati in questi anni a vedere i nostri spazi non come spazi da gestire, ma come spazi da autogovernare con le decine di persone che li attraversano. Non più lo spazio del collettivo, ma lo spazio della ricerca politica di nuove forme di organizzazione. In questo senso, una prima differenza con i centri sociali degli ultimi anni risiede nel fatto che il municipio sociale, per sua conformazione o perché tende ad esserlo, è uno spazio sempre aperto, però non aperto da un collettivo gestore che porta all’esasperazione la “sostenibilità della militanza” nell’essere continuamente presente nello spazio. Aperto da forme di soggettività diverse da quelle che hanno aperto i primi centri sociali. Aperto anche solo per fare un corso di italiano, una visita medica o un corso di informatica. Aperto per progetti politici espansivi e tendenzialmente interdipendenti. Uno spazio in cui i soggetti sono una parte, autonomi, ma anche interdipendenti.
Il centro sociale era un progetto politico in sé, il municipio sociale invece ne contiene molti, di progetti. Interdipendenza, dunque, e non pura autonomia. Anche se sì, siamo ancora autonomi. Perché quando si è trattato, ad esempio, di accelerare il processo per la realizzazione di una portineria sociale a Làbas lo abbiamo fatto, consapevoli che questo poteva agevolare la scommessa politica dell’apertura di uno spazio. Autonomi perché, per esempio, la sfida per l’autonomia è la più grande che si pratica in un doposcuola o in contesti dove il circolo vizioso della povertà non fornisce alcun elemento di riscatto, singolare o collettivo.
Essere autonomi fa parte del nostro DNA di soggetti eretici. Un DNA che sta subendo delle modificazioni, trasformazioni che però proviamo sempre ad acquisire in senso espansivo, materialista, gioioso.
Da autonomi, allora, ci interroghiamo sull’interdipendenza di e tra quelli che abbiamo iniziato a chiamare municipi sociali. Il concetto di Autonomia gioca un ruolo molto importante nel saper cogliere le sfide dell’interdipendenza presentate dai Municipi sociali.
Per quanto il COVID ci abbia fatto vivere una dinamica stop&go, molte delle linee di ricerca aperte nei municipi hanno avuto un’accelerazione: gran confusione e spaesamento sono stati colmati da tracce di lavoro già avviato.
Non è un caso che, da quando la crisi economica del 2008 è scoppiata, molti centri sociali abbiano aperto a forme di mutualismo, prima attivate solo in risposta a un’emergenza, poi sedimentate. La domanda allora era: “come sopravviviamo insieme alla crisi?”. Oggi possiamo dire che, da marzo 2020, da quando la pandemia si è diffusa, portarci dietro questa domanda sia servito. Staffette Alimentari Partigiane, Brigate di Mutuo Soccorso, Sportelli online e in presenza, capacità di attivazione dei volontari, tessitura di reti sociali di mutuo aiuto e di espressione politica. Sapevamo bene che tutto questo nascondeva dei limiti, che il sociale fine a se stesso non va da nessuna parte, ma ciò che abbiamo vissuto nell’ultimo anno e mezzo era ben più grande delle nostre convinzioni. Materialisticamente parlando, dunque, abbiamo fatto quello che sapevamo fare meglio: non restare immobili. Oggi, che il COVID non è passato, ma ci prendiamo del tempo per riflettere, verrebbe da dire che quello che sapevamo fare meglio era entrare in contatto con il lavoro sociale astrattamente inteso nelle sue punte più avanzate, cioè cooperare tra pari. Medicə, infermierə, architettə, informaticə, educatorə, maestrə, portinaiə di quartiere, e tante altre forme vive che il lavoro sociale ha prodotto nella sua capacità di cooperazione, pur venendo da anni di crisi. Guardare con lenti nuove questa dinamica rappresenta allora, forse, uno dei punti che definiscono il municipio sociale. Chi lo attraversa? Una composizione cambiata negli anni. La sfida dell’interdipendenza nei municipi si colloca qui.
Il COVID ha accelerato anche dinamiche che prima facevamo fatica a distinguere. Negli interventi precedenti si è parlato ad esempio di postumano. Nei nostri spazi, il postumano era un tema o troppo poco indagato o, alle volte, indagato con superficialità. Se prendiamo il tema del digitale, ancora un esempio, ci rendiamo conto che ci abbiamo messo del tempo per considerarlo parte di noi: prima era comunicazione esterna, poi interna, poi abbiamo capito che intrecciava più dimensioni della vita, ma sempre in una forma spuria, mai del tutto trasparente. Questo ha prodotto anche le peggiori dinamiche relazionali, oltre che un depotenziamento dell’agire politico. La tendenza a ragionare per sottrazione, il mito del nudo corpo (o peggio del corpo puro), il capirsi in quanto uomini o donne, e non il capirsi in una complessità di rapporti postumani. È come se, pur avendo entrambe le braccia, ne fosse stata usata una sola e ci si fosse convinti di averne una soltanto, mentre oggi, per fortuna, ci facciamo travolgere dalla forza Yoko che ci sta insegnando cosa vuol dire usare qualcosa in più degli arti che si hanno.
Siamo nel bel mezzo di una Rivoluzione e il COVID, la paura che ha causato e le milioni di conseguenze che sta ancora generando, ce ne hanno fatto rendere conto.
Nel peggior futuro immaginabile per la Terra, come nel migliore dei mondi possibili, non possiamo non servirci di strumenti e tecniche ormai incorporati a noi. Ci sono due opzioni, pensare per sottrazione, oppure, come stiamo provando a fare, iniziare a costruire un pensiero potente e liberatorio, di lotta, che sommi e moltiplichi e che renda felici. Sottrarsi è la scusa per non voler fare la rivoluzione, ma il postumano non è una metafora da cui ci si può allontanare, è già realtà. È la bellezza delle attuali forme di vita e la brutalità delle forme di comando. Il COVID ha accelerato la possibilità di riconoscere queste dinamiche, di indagarle, di coalizzarci con forme di vita più postumane di noi.
La scienza, per esempio, è diventata oggetto di discussione corrente e ci sfida a conoscere di più per farci nuovi alleati. Il digitale sta trasformando ogni ambito lavorativo e di vita, una rivoluzione del come e del cosa si produce, che coinvolge l’intera società. Noi abbiamo forse faticato a vederlo subito, ma durante il COVID anche il più distratto, o chi si è trovato alle prese con attività fino a ieri considerate più “umane” o tradizionali che mai, come educare un bambino o un adolescente (o educarsi insieme ad un adolescente), far compagnia ad anziani, fare un’assemblea, o semplicemente leggere o mangiare, ha dovuto fare i conti con la realtà del digitale, con le sue conseguenze, con la sua importanza generale, sia nei momenti di carenza di mezzi, sia nella loro massima presenza. Pensiamo al momento in cui si è raggiunto un ragazzo che non si connetteva da un mese alla didattica a distanza. Questo incontro concreto ha voluto dire, in una volta sola, fare i conti con una situazione di povertà economica, con la necessità di potenziare i mezzi digitali, con il percorso di apprendimento all’uso di questi mezzi (cosa molto rapida in una mente molto giovane), ma, a un certo punto, ha voluto dire anche relazionarsi con un genitore che non voleva più mandarlo a scuola per paura del COVID nonostante in realtà non credesse troppo al virus. “Speriamo in Allah che passi”, ci diceva, tanto che quando il ragazzo ha contratto la malattia, il papà glielo ha tenuto nascosto per non fargli provare vergogna di fronte ad Allah, per non incidere sulla sua autostima futura.
C’è stato poi chi era convinto che per prevenire e guarire dal COVID bastasse usare chiodi di garofano, unguenti particolari e, di nuovo, sperare in Dio. Scienza e superstizione, dunque. Avere avuto a che fare con quel ragazzo ha voluto dire affrontare i nuovi paradigmi della conoscenza e delle relazioni. Facendo questo si sono aperte nuove strade possibili per l’autonomia e il riscatto, per lui e per noi. Un percorso di ricerca, tante possibili strade per lo scontro. Come la dimensione religiosa si confronti con la dimensione postumana è una questione che vedremo sempre di più crescere intorno a noi. Ma, forse, più di noi la vivranno le nuove generazioni.
Il sociale nella condizione postumana e al centro della rivoluzione digitale.
Tra il 2008 e il 2013 eravamo abituati ad agire la politica del sociale su un altro piano. Molto probabilmente, all’epoca, non avremmo perso tempo a consolidare progetti di media o lunga durata. Il mutualismo si dava, per esempio, nell’occupazione di una palazzina, in questo modo provavamo a connettere subito il sociale con il politico. Il sociale diventava così immediatamente politico attraverso un gesto di rottura. Questa dinamica era giusta, ma non dirompente: liberava nuove energie e sviluppava nuove forme di politicizzazione, ma mostrava anche l’altissima sofferenza del sociale, dunque appariva debole per quanto si mostrasse forte. Eravamo nella condizione in cui, avrebbe detto qualcuno, “la potenza sociale, cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine attraverso la cooperazione […] appare non come la propria potenza unificata, ma come un potere estraneo”. In fondo, dalle case occupate apparivamo prima come poveracci e poi, forse, come lavoratori sociali postumani; in più, dall’altro lato della barricata, c’era chi sapeva che la maggior parte di questi poveracci avrebbe presto ceduto a soluzioni alternative all’occupazione, proprio perché poveracci. A tutto questo si è arrivati in ogni caso con la lotta che è sempre il metodo principale di verifica anche delle contraddizioni. Le condizioni, ai tempi, mostravano il limite di non considerare il sociale nella sua reale forza produttiva generale, di non averlo immediatamente come alleato. Politica, sì, ma non innervata nelle contraddizioni del lavoro sociale astratto, cioè del lavoro della società in genere.
Il potenziale del sociale oggi, però, sembra essere maggiore, anche perché postumano. La sua forza produttiva aggregata è resa più palese, e un gesto di rottura ben fatto potrebbe servire ad aggregare ancora di più la sua forza. La salute pubblica è tornata al centro dell’attenzione, la scuola e il welfare pure, la logistica è determinante e il lavoro digitale sempre più ramificato. A comporre la forza aggregata del lavoro sociale appare sempre di più la cooperazione stessa e non il dominio su di essa. Nei municipi sociali coltiviamo questa forza perché organizziamo l’interdipendenza del lavoro sociale e, facendolo, organizziamo la sua politica. Rottura, non autorappresentativa, interdipendente con la sua forza produttiva aggregata. Questa dinamica ci aiuta a superare lo stesso paradigma del conflitto/consenso. Il sociale non è solo un corpo esterno che mostra consenso, la cosiddetta società civile nella sua deriva più neutrale ed esterna alle dinamiche produttive, è invece interno alle dinamiche stesse che portano alle rotture. È interdipendente con esse, vi partecipa in qualche modo. Pensiamo in questo senso all’alleanza che si può dare tra badanti o ex-badanti con medicə e infermierə; tra educatorə, volontariə, attivistə e ragazzə che lottano per affermare la propria autonomia in un mondo più pulito; tra architettə, falegnami e web designers; tra informatici, maestrə di italiano e portinai di quartiere; tra consiglierə di quartiere e sindacalistə di strada. Nei municipi sociali dobbiamo porci il problema di come si organizza questa interdipendenza, perché così facendo organizziamo la nostra forza. Quello dei municipi non è un sociale inerme. È un sociale che lotta e costruisce progetti, non per perpetuare dinamiche di volontariato inverosimili, ma per solidificare pratiche virtuose, servizi pubblici non statali, accessibili e di qualità, progetti di supporto alla frontiera, progetti sociali ad alta interdipendenza con altre realtà territoriali, possibilità di lavoro sociale libero politicamente. Questo tipo di dinamica apre innumerevoli piani di scontro oltre a possibilità di benessere per tutti. Il sociale dei municipi non è quello della cura fine a se stessa, ma è quello che si interroga su come potenziare le cure per tutti, farlo in un contesto territoriale migliorando i determinanti della salute. È un sociale integrato con lo spazio pubblico, conosce le dinamiche dello Stato, ma anche quelle del mercato. Sa distinguere chi agisce per profitto o rendita di posizione, da chi si sporca le mani con forme politiche di impresa. Lo sa fare progettando e agendo in maniera interdipendente con altri. Realtà fuori da essi, enti pubblici, scuole, ospedali, associazioni, realtà cooperative, imprese. Basta pensare ad alcuni progetti: come può un laboratorio di salute non essere interdipendente con il servizio sanitario nazionale? Come può un doposcuola non essere interdipendente con una scuola? Nei nostri municipi la densità di queste relazioni è altissima, ancora tutta da indagare.
Non possiamo considerare l’interdipendenza come un sistema chiuso, autorisolutivo. Semplicemente non lo è. Il municipio sociale viene attraversato da centinaia di persone ed è percorso da un altissimo grado di interazioni. Non si limita all’edificio in cui è collocato ma nell’edificio trova un punto di movimentazione importante. È luogo di alleanze tra le punte più avanzate del lavoro sociale astrattamente inteso, prima che spazio di socialità per il quartiere. È spazio di vita del quartiere, prima che ente territoriale a cui rivolgersi. È infrastruttura sociale, prima che servizio sociale.
Fare municipio sociale.
Dobbiamo dotarci di nuovi strumenti per indagare l’interdipendenza. Non basta parlare di una generica complessità: 1. trasformazioni antropologiche e forme di organizzazione – il postumano può aiutarci per affrontare questo tema; 2. nella diversità di attraversamento che ha un municipio (es. attivismo, volontariato, lavoro, ecc.) non limitiamo il tutto a forme di collettivismo assemblearista, perderemmo il potere del lavoro sociale autorganizzato – apriamo a forme di impresa politica; 3. imprese, p.a., lavoratori autonomi, ed ogni realtà economica sono di fronte a cambiamenti epocali, la riconversione ecologica, la digitalizzazione, le tecnologie aprono lo spazio per nuove alleanze tra il lavoro sociale. In queste trasformazioni diventano maggiormente palesi i limiti dell’impresa sociale e dell’impresa economica. Impresa politica può anche essere strumento per affrontare il tema dell’interdipendenza tra municipi e e altre realtà; 4. apriamo nei nostri municipi delle redazioni per studiare l’interdipendenza, i processi che riescono a federare le autonomie. Dotiamoci di strumenti di analisi, ricerca e studio dell’interdipendenza.
Nei municipi noi attivistə siamo una parte e dobbiamo con-vincere le altre, non vincerle. Vincere insieme per poi riprogettare. In una parola, dobbiamo elaborare strategie condivise, ma contestualizzate, provarle e poi verificarle. Per farlo bisogna conoscere l’ambito di intervento del progetto politico, vederne le potenzialità ma anche le sfide, esserne una parte importante ma mai quella indispensabile. Questa è un’altra lezione che apprendiamo dalla pandemia e che ci ha segnato profondamente, anche al nostro interno. L’interdipendenza tra progetti politici si posiziona tra queste coordinate, non in una semplice assemblea tra progetti, ma in un reale confronto politico tra posizioni diverse, tra forme del lavoro sociale diverse, tra posizionamenti diversi ma presenti, “saldamente incarnati in luoghi specifici”.
Siamo al centro della rivoluzione digitale e vogliamo esserne padronə, non sottomessi alle nuove forme di comando. Facciamolo anche a partire dai municipi sociali.