La storia non si ripete, ma fa rima (M. T.)
Ogni volta che i movimenti sociali si scontrano con la controparte, essa ne denuncia la violenza al tribunale dell’opinione pubblica, affiancando le immagini ad un racconto morale di condanna. Il conflitto sociale viene così ipostatizzato in una sfera comunicativa il cui collegio ha stabilito la condanna prima dell’esercizio di difesa: il conflitto è esterno alla ‘dialettica democratica’. Le immagini sono auto- evidenti, viene detto, ‘gli incapucciati hanno rotto la vetrina’; la lotta diventa nel loro racconto distopia.
Facciamo un salto indietro di poche settimane e pensiamo alle giornate di generalizzazione degli scioperi di ottobre in Italia. Stazioni ed aeroporti, città, fabbriche ed università bloccate, la polizia a Bologna il pomeriggio di venerdì letteralmente esaurisce i lacrimogeni, e deve ancora esserci il sabato. Di fronte al genocidio le città sono insorte; i capi uffici stampa dei governi parlano di ‘violenti’. Il giorno dopo un milione di persone marciano a Roma. Tumulto e partecipazione, vi è concatenazione politica. Il tema è interessante e complicato, perché l’uso della forza è patrimonio del conflitto e connaturato al diritto di resistenza. Così come è del tutto inevitabile la costruzione del consenso, unica strategia che ci libera dal vicolo cieco dell’autosufficienza.
Non ci interessa una discussione filosofica, per noi è ovvio che la violenza sia il complemento necessario alla disobbedienza, che la Marcia del sale debba anche avere un’unione di fatto con il Fronte di liberazione nazionale del generale Giap. Che i cattivi dicano porcherie sui ribelli fa parte della missione degli apparati ideologici della difesa dell’ordine costituito, ca va san dire. Il tema è da ricollocare nello scontro di classe contemporaneo, che i Municipi sociali di Bologna hanno chiamato ‘guerra civile globale’ con un’intuizione premonitrice.
Negli Stati uniti il Governo federale sta usando l’esercito contro le città, armi pesanti in contesti urbani interni. La politica che continua con altri mezzi, o forse la guerra che usa i canali linguistici, economici, legali, militari. La guerra civile in America è la guerra contro le città, da San Francisco a Chicago, da Los Angeles a New York, contro le Università, contro le Comunità municipali e solidali. Lo stesso odio neo-nazionale che gli Stati hanno contro le città d’Europa – si guardi alla campagna di Fratelli d’Italia contro Bologna o di Orban contro Budapest; ricordiamo che esse sono la camera di sviluppo dei progetti democratici e le loro composizioni politiche si battono per l’Europa politica proprio contro il neo-statalismo anti-fedederale. Intere organizzazioni vengono messe fuori legge (antifa), l’ipoteca dell’assalto armato è parte della contesa politica (la minaccia di Trump contro la vittoria di Mamdani): questi sono loro, i cattivi. Ma anche i nostri hanno maturato un nuovo modo di stare nella fase politica, perché è evidente che non tutto si esaurisce nelle straordinarie ed oceaniche manifestazioni di massa contro Trump, che hanno avuto peraltro anche il merito di fare da camera di rilancio della parte più attiva dei Democratici, quella socialista ed ecologista. Nelle città si organizza resistenza attiva, si contendono arresti, si nascondono le prede dei rabbiosi ICE, si difendono quartieri e comunità, si bastonano i bastardi del White pride. Ci si copre il viso e si discute di violenza politica. La guerra civile riporta l’azione nel campo della politica, sottraendola alla morale. Per certi versi la Democrazia in America ricorda a tutti noi che la lotta di classe non prevede il decommissioning dall’uso ragionato della forza.
L’onda ProPal in Italia ha detto che in Occidente è in corso l’israelizzazione del comando, un’iperbolica espressione che ci aiuta ad arrivare allo stesso concetto che abbiamo provato ad indurre dalla guerra democratica – o democrazia in guerra- in America. La lotta di classe dall’alto, quella degli oligarchi – degli idrocarburi o dei bits, in tunica bianca o in shorts- eccede il parlamentarismo, eccede Tocqueville, si è fatta guerra civile, nella sua forma contemporanea. Essa è ibrida, ci sono ancora le elezioni, ma anche gli assalti alla sedi degli oppositori, c’è la Corte ma anche la grazia per gli insorti che assaltano il parlamento – a parti inverse la parola insorti muta in terroristi– , c’è la tortura ma anche la Bibbia, l’uso della fame e l’assedio come armi, ma anche la libertà di stampa.
Le destre estreme sono integrate nei governi; i tempi sono complicati, alcuni autori, come Johann Chapoutot, vedono analogie con gli anni Trenta in Germania. In ogni caso il mondo è cambiato e per certi versi le costituzioni post-weimariane sono saltate per aria, nella loro parte materiale. Nella guerra civile ibrida i movimenti sociali sperimentano un modo ibrido di resistere, confliggere, insorgere. Ciò che interessa loro non è il giudizio morale, ma l’efficacia nel medio e lungo periodo del processo politico.
C’è di che parlarne a lungo, partendo dall’osservazione di quello che accade. La seconda parte dell’autunno avrà due episodi di sciopero sociale, che possono essere resi convergenti dai protagonisti dell’onda ProPal; sono occasioni politiche, come lo sarà l’assemblea di sabato 15 Novembre a Roma.
In ogni caso non vi è modo di raggiungere l’impossibile senza percorrere la distanza che ci separa da esso.

