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Materialismo cosmico – Prequel

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Siamo materialisti. Questo è un punto fermo che ci posiziona agli antipodi di qualsiasi visione trascendentale per comprendere ed agire nella realtà. Ma che cos’è la materia? Ci basta pensare che la realtà sia quella che tocchiamo con le mani?

Per iniziare a riflettere abbiamo trovato un compagno di strada, Luca Tornatore, astrofisico, ovvero un fisico che studia i processi che avvengono fuori dalla terra. Con lui entreremo un po’ nella fisica del cosmo, giusto il necessario per poi viaggiare con autonomia con i materiali che ci suggerirà.

Nel primo dialogo, una sorta di prequel, abbiamo affrontato perché è importante confrontarsi con lo spazio, farsi domande che a prima vista possono sembrare inutili, riflettere sul nesso scienza-potere e su come aggredirlo.  

Allacciatevi le cinture, partiamo.

Si possono ascoltare gli estratti dell’intervista con Luca Tornatore sul nuovo Podcast su Spotify: Materialismo cosmico.


Prequel 

#1 Ha senso interrogarsi su cosa sia il cosmo? Cosa avviene tra le stelle? Perché dovremmo interessarcene? La conoscenza è potere. La scienza è potere. La scienza è oggi quanto mai frammentata. Possiamo sovvertire tutto questo? Qual è il senso di interrogarsi sul cosmo?

Chi si guarda solo i piedi non cammina mai verso un orizzonte. Devi guardarlo, un orizzonte. Magari non lo raggiungi, ma per strada incontri ciò che rende interessante la vita. La specie umana, con la sua intelligenza, si è evoluta e abbiamo scoperto una miriade di cose semplicemente perché ci siamo posti delle domande che potrebbero sembrare inutili. 

Peraltro, questo è uno dei motivi principali per essere contro praticamente tutte le riforme della scuola che abbiamo visto nel passato. E’ obbligatorio studiare cose che vengono definite inutili, che siano la poesia, la letteratura, la scienza astratta. Lo studio non deve servire a qualcosa, non deve essere qualcosa di utilitaristico, servo di un fine eterogeneo, applicabile immediatamente. Deve stimolarti a porti delle grandi domande. 

Altrimenti verso dove cammini? Chi è che si vuole svegliare la mattina pensando solo al fatto che andrà a fare un lavoro di m****? Non sono domande inutili. Possono essere domande che determinano il presente e il futuro. Se non sei tu a farti le grandi domande, se le farà qualcun altro. L’affacciarsi della rete “gratis” negli anni ‘90 è un parallelo: se non paghi tu la bolletta, la paga qualcun altro e sarà lui a decidere che fare della rete, di cosa popolarla. Il punto non era, ovviamente, limitare l’accesso a chi può permetterselo ma di avere la visione per capire che era necessario organizzarsi. Insomma: se non sei tu a farti le grandi domande, se le farà qualcun altro e sarà lui a disegnare il futuro. Ed è importante farsi le domande giuste e poi arriveranno le risposte. Sono le domande che danno la direzione. Sono le visioni della scienza che ti portano dove vuoi andare. Poi, per percolazione1 arrivano un’enorme quantità di cose estremamente utili. 

Le grandi scoperte tecniche –  diventate tecnologia – che danno forma alla nostra vita, nel bene e nel male, sono venute tutte da viaggi apparentemente inutili. Per esempio l’oggetto che ci permette di fare questa intervista da remoto e che stiamo usando adesso viene fuori in gran parte dalla fisica quantistica ma anche dall’astrofisica. Per esempio, abbiamo fotocamere pazzesche sui nostri cellulari perché il boost è stato dato dalla necessità di miniaturizzare, ingegnerizzare, fare fotocamere da mettere nei moderni telescopi e soprattutto sui satelliti, che chiaramente non potevano essere con la pellicola. Anche il GPS è sviluppato da queste necessità e funziona perché capiamo la Relatività. Sono solo esempi semplici, ma si potrebbe continuare a lungo anche spaziando in altri campi. 

Un primo punto da considerare potrebbe allora essere: ricostruiamo una forma mentale per cui le cose utili non sono solo quelle che impattano sulla vita materiale qui e adesso. Ovvio che quelle cose sono fondamentali – non è che diventiamo trascendentali o elitaristi. Chiaramente i conflitti si fanno principalmente su quei temi, ma non è vero che tutto il resto è un gioco, o un residuo, perché tutto il resto è la visione del futuro. 

Dobbiamo partire da un dato culturale, di pensiero, di forma mentis: qual è la scenografia in cui ci muoviamo? Stiamo facendo un gioco puramente intellettuale, bello perché così abbiamo qualcosa di interessante da dire? Oppure in realtà cominciamo a pensare, soprattutto le giovani generazioni, che è necessario appropriarsi dei saperi pesanti, anche quelli faticosi, che richiedono di stare su libri e ragionare e imparare l’umiltà di pensare che non è una voce di wikipedia che ci dà il sapere. Questi saperi sono quelli che ci permettono di leggere un presente che è fatto di saperi estremamente intensi. E metterli in relazione anche quando sembrano a prima vista scorrelati, avendo la capacità e la competenza di andare oltre le apparenti semplificazioni.

Per fare un esempio di attualità, che cos’è davvero l’intelligenza artificiale, o Chat Gpt, come ci interagisco, qual è l’uso sbagliato, qual è l’uso giusto? Importante è saper appropriarsi dei saperi, che evolvono costantemente, per poter leggere il presente, decodificarlo, non solo usarlo. Perché se tu non sai leggere il presente, decodificarlo, il conflitto su cosa lo fai? E’ chiaro “pane, amore e fantasia”, però il conflitto si è spostato. I mille miliardi di dollari che baciavano la mano di Trump, cosa significano? Sono tutti solo immateriali? E’ importante riprendere la capacità di leggere il presente ed evolverlo.  Per lo meno per iniziare a capire se quello che dice Musk è solo una stupidata o una scusa per mirare ad altro.

Prendiamo la corsa alla Luna, che è un esempio perfetto. Sulla Luna poteva sembrare che non ci fosse niente, ma in realtà abbiamo trovato un sacco di cose interessanti, quantomeno di conferme. Ma soprattutto il fatto di riuscire ad andare sulla Luna ha significato una sfida intellettuale, tecnologica, scientifica, pazzesca. Se tralasciamo per un attimo il fatto che era comunque espressione di quel complesso militare industriale tanto famoso, in sé è stata una cosa grandiosa, entusiasmante. Se uno va a vedere il livello di dettagli, di conoscenze, di capacità che è stato necessario sviluppare per andare sulla Luna, capisci come la visione poi diventa potenza materiale, che determina la struttura dell’economia della società per i decenni successivi. Ma all’inizio era una visione. 

Se uno pensa solo banalmente: cosa ci vado a fare sulla Luna? Non coglie la complessità.
E tralascia anche il recuperare una sorta di magia. Tutti noi esperiamo il fatto che il cielo stellato sopra di noi è una magia. Qualcosa che è dentro di noi. Qualcosa capace di muovere una quantità di energie, di denaro. 

Quando sentiamo Musk che vuole andare su Marte, certo possiamo dire che tecnicamente può essere una sparata, che in questo momento non ci si può andare, visto che non è che ci vai e torni come con il Frecciarossa. Ed ancora, se ci arrivi cosa ci fai, chi ci va? Ci sono quantità enormi di problemi da risolvere. Nel risolvere quei problemi si determineranno una capacità, un’espansione tecnologica e scientifica e di saperi che di nuovo si espanderanno nel futuro, nella società, nella conoscenza. Chi avrà questi saperi? Chi li dominerà? 

E’ chiaro che se ci mettiamo adesso a ragionare non vuol dire che immediatamente dominiamo quella cosa. Non abbiamo ovviamente le migliaia di miliardi di dollari che servono. Però il lavoro è cercare di ricostruire, piano piano, come abbiamo sempre fatto, un pensiero che, poi in qualche modo, cerchiamo di usare, di giocarci. 

Cerchiamo di stare insieme a miliardi di persone e provare a cambiare un po’ il corso delle questioni. Per questo è importante, interessante nel senso che ci provoca a essere nelle cose, andare a indagare quello che sta succedendo. Dobbiamo affrontare che cosa significa lo spazio per noi, in un modo diverso dal considerarlo solo un fatto di costume e poi riportare il tutto sempre da un punto di vista materiale.

Non dimentichiamoci infine che fatti non fummo a viver come bruti. Quella che ci si scatena addosso è una realtà brutalizzante invece, che ti vuole comunque costringere – e ci riesce molto bene – alla fame non solo fisica ma anche della mente, degli entusiasmi, dei pensieri. Parlare di scienza, di spazio, di tecnologia in senso ampio, fa parte di un modo di vedere che è sempre stato nostro: riappropriarsi anche degli entusiasmi, delle grandi visioni. Non ce le dobbiamo negare.  Queste grandi visioni hanno sempre determinato la struttura materiale del futuro. Non c’è niente da fare: la scienza, che poi diventa tecnologia, è sempre una leva di potere. Se tu non la capisci, non la decodifichi, ci rimani sotto. 

Basta vedere onestamente l’esperimento che sono i social negli ultimi venti anni. Se si guardano i risultati che hanno determinato, è abbastanza terrificante. Questo perché non siamo alfabetizzati a capire nemmeno noi stessi, a saperne di più di neuroscienze, per esempio. A domandarci: come funziono io? Musk questo lo fa. 


#2 La conoscenza, scienza, è potere. Possiamo fare qualcosa per cambiare radicalmente tutto questo? 

La conoscenza è sempre stata una leva di potere in qualsiasi società umana. Più la conoscenza è un bene comune diffuso, “open”, e più è difficile che qualcuno possa manipolare la realtà sociale sulla base di una conoscenza esclusiva che gli altri non hanno: la scienza è una leva di potere fino a che è privata. [Su questo c’è un stato un grande lavoro di elaborazione in Italia, dai tempi de L’ape e l’architetto, successivamente ripreso dal collettivo Laser, ad esempio].

Senza ingenuità  la scienza è una leva di potere quanto lo è la sua traduzione tecnologica e come questa viene usata, reimpostata in una lunga catena. Più sono consapevole di alcuni meccanismi, meno è possibile che quei meccanismi si srotolino senza che si inneschi conflitto da parte mia. Le leve esistono, come direbbe Archimede, se c’è un punto d’appoggio. Bisogna togliere quel punto d’appoggio.

La conoscenza, scienza, è un sapere altamente specifico. Nessuno oggi da solo può padroneggiarne tutto il panorama, è ovvio. Non siamo più di fronte a un sapere come era fino al Rinascimento in cui c’erano figure geniali come Leonardo da Vinci, per le quali in una vita era sostanzialmente possibile acquisire tutto il sapere e anche espanderlo. Oggi semplicemente non è possibile. Il punto è rivendicare il fatto che ognuno di noi deve poter essere in grado di acquisire non solo un sapere specialistico ma soprattutto una mappa complessiva, precisa e accurata.

Queste riflessioni mi portano a tornare ad un tema delicato, su cui tante lotte e pensieri abbiamo sempre speso, e cioè come dovrebbero essere la scuola e l’università? Ben lungi dal voler richiedere qualcosa di facile, di non traumatico, forse una chiave potrebbe essere quella di dire che a scuola vogliamo studiare bene, vogliamo studiare tutto, vogliamo studiare “pesantemente”. Il merito nel senso che la conoscenza ce la meritiamo. E’ solo attraverso una formazione intellettuale profonda che posso arrivare al punto di decodificare quello che è intorno a me. Quello che mi circonda è così specifico che non posso padroneggiarlo tutto nei suoi dettagli, ma se imparo ad avere una mappa mentale sempre più complessa posso capire che cosa è un’idiozia e cosa invece è intelligente. Imparo a capire o meglio ad annusare che forse lì c’è qualche cosa che non va bene. Questo non avviene se le cose vengono semplificate.

Le classi dominanti, o come vogliamo chiamarle, chi detiene il potere insomma, non fa questa operazione: chi viene formato per ereditare il potere, in qualche modo per essere utile ad esso, non fa una scuola facile ma invece un percorso altamente specializzante. La differenza che quel percorso è anche altamente selettivo di chi è adatta, o si adatta, a sopportare e supportare un certo tipo di pressione. Il succo è che come dicevamo la scienza è un potere finché è privata. 

Può essere utile tornare a una cosa che i movimenti studenteschi hanno sempre detto, da quando ci ricordiamo e cioè che la prima cosa è la democratizzazione, evitare che ci siano luoghi di eccellenza nel senso che tutti i luoghi devono essere di eccellenza e non che nessuno deve esserlo perché l’eccellenza è anche faticosa. Non è accettabile che vengano finanziati solo alcuni luoghi perimetrandoli, e tutto il resto rimanga fuori. Contemporaneamente dobbiamo anche ripensare il fatto che se io voglio l’eccellenza in qualche modo devo mettermi anche nella disposizione intellettuale che questo costerà fatica.

Insomma chi detiene il potere sulle scoperte scientifiche? Chi è in grado di farlo. 

Se troppo pochi accedono a quella filiera di saperi e quei troppo pochi non hanno una formazione complessiva adeguata perché è troppo tecnica, è chiaro che molti di quei troppo pochi tendenzialmente avranno un pensiero molto, molto tecnico e soprattutto forgiato da un certo tipo di pressione e di idea di eccellenza (proviamo un esercizio: pensare a un’idea di eccellenza, a una definizione. Cosa ci viene in mente subito? qualcosa di finalizzato solo a sé stesso, a una brillanza tecnica o anche in relazione all’ambiente in cui si da, in cui agisce e interagisce? Cosa è un sapere eccellente?). Più una filiera è chiusa, meno chi ci partecipa ha il tempo di formarsi anche su altro, perché è una formazione estremamente dispendiosa. Ci sono molti esempi di scienziati assolutamente brillanti a 360 gradi, ma anche esempi di scienziati molto brillanti nella loro materia, intellettualmente molto acuti nella loro disciplina, ma incredibilmente ottusi a 360 gradi. Il problema è sempre chiedersi: qual è il significato complessivo di quello che sto facendo? 

Agire sulla leva di potere è un percorso complessivo. Nella scienza la competizione è veramente estrema, feroce. Per certi versi molte persone diventano migranti (ma in qualche modo privilegiat@ e incoraggiat@ ad essere tali). Due anni da una parte, due anni da un’altra, due anni da un’altra ancora. Sempre sottopost@ ad una pressione mostruosa per pubblicare. Se non pubblichi è impossibile progredire . Questo non è ovviamente sbagliato in sé: ma per pubblicare, se in due anni devi fare 3-4 pubblicazioni, non hai neanche il tempo di chiederti spesso cosa stai facendo. Ti trovi immerso in un mainstream di scienza, di produzione, perché devi pubblicare cose che sono hot in quel momento. Argomenti validissimi scientificamente, interessanti, entusiasmanti, sia chiaro. Ma anche molto totalizzanti ed estremamente focalizzati a piccole celle di sapere.

Tutto questo in un ambiente che non è tuo. In due anni non hai il tempo di radicarti, di cercare di capire dove sei. Stai tutto il giorno con i tuoi simili, tutti in competizione, tutti focalizzati. Se fra due anni te ne andrai da un’altra parte, cosa ti interessa leggere il territorio che hai intorno? Il rischio è di “costruire” persone che difficilmente hanno un percorso complessivo, multidisciplinare, semplicemente umano. Poche che leggono qualcos’altro di diverso dalla scienza a cui si dedicano. Poche che hanno una formazione un po’ più complessiva, quella che ti porta a chiederti in che parte stai nel grande gioco dell’umanità, che ruolo vuoi avere, quale pezzo del puzzle sei. 

Si rischia di creare una classe di persone, magari estremamente intelligenti, brillanti, con dei saperi estremamente intensi, che però non si rendono conto che sono attori di un gioco complessivo e che devi scegliere che ruolo vuoi avere in quel gioco, semplicemente. E’ un meccanismo molto complesso da scardinare. Sia chiaro, parlo di rischio in senso statistico, intenso che su grandi numeri della big science. Questa intensità dei saperi non se ne andrà. Questa situazione non si modificherà. In fisica, in cosmologia, in genetica, in scienze economiche, in scienze sociali, che sia dove vuoi, questa dimensione non se ne andrà. Il tema piuttosto è come riappropriarcene collettivamente in tutta la sua complessità attraverso una trama sociale che tiene tutto insieme. A chi fa fisica, genetica, biologia, studia il climate change possiamo dire: cerchiamo di tenere insieme le cose. 

Individualmente non puoi incidere. Non dimentichiamoci che oggi parliamo di big science, per cui servono veramente tante, tante risorse. In questi ambiti di lavoro può crearsi una pressione sociale interna se persone che sono attive e proattive nella società “esterna” riportano all’interno” la pressione che vivono all’esterno, a cui partecipano e che le fa crescere. E’ un sistema complesso, non c’è una risposta, un ragionamento facile. La risposta, di sicuro, non passa attraverso la semplificazione o la perimetrazione dei saperi, ma serve che più persone possibili in una società complessa, indipendentemente dalla loro situazione materiale, siano in grado di capire quali sono le grandi domande e quali sono le risposte sbagliate. Questo perché hanno una mappa mentale, un’attrezzatura che le mette in grado di capire, comprendere e scegliere i punti di vista. Perché anche il punto di vista è sempre fondamentale, la neutralità non esiste. Si può cercare di capire qual è la radice, la natura di un problema che riguarda un aspetto scientifico e tecnologico senza essere un vero specialista, ma riuscendo a fare le domande giuste e capendo quali sono le risposte sbagliate. 

Insomma, come sempre l’importante è sempre la capacità di farsi le domande giuste. Perché una risposta giusta a una domanda sbagliata non serve a niente, ma invece la domanda giusta prima o poi porterà o una crisi o a una risposta giusta o a scoperchiare qualche cosa che non va. O comunque a non dimenticarsi di guardare l’orizzonte e che l’orizzonte si forma nel percorso.

  1. Percolare è filtrare, il passare lento dell’acqua per un solido possiamo parlare anche di come una verità di cui è stato tentato l’occultamento percoli al pubblico, di come certi tratti e certe cognizioni di un sapere alto percolino nella cultura popolare, delle conquiste di un’avanguardia artistica che percolano, di un dubbio che percola da ogni affermazione che tenta di negarlo.
    Resta un po’ il colare da cui deriva, alla fine, su cui però la sintesi del prefisso per- installa l’icastica veste di un attraversamento, goccia a goccia, quasi faticoso — senza le implicazioni sbrodolose del colare stesso, e senza l’etera incorporeità del filtrare, e con un piacevole, oltre che con un sottile connotato di trasformazione. ↩︎