Pubblichiamo questo contributo di Flavia, compagna del Municipio Sociale TPO.
Per una critica degli immaginari del desiderio, tra femminismi, dispositivi dello sguardo e cultura visiva radicale.
In Italia si discute di educazione sessuale come se fosse un attentato all’ordine familiare. L’idea che a scuola si possa parlare di corpo, desiderio, consenso e violenza sembra spaventare più della violenza stessa.
Oggi basta un emendamento per subordinare perfino una lezione sul piacere o sull’affettività al consenso dei genitori, mentre ogni indicazione pedagogica indipendente viene bollata come indottrinamento.
È un paradosso storico: proprio mentre si tenta di vietare la parola sul corpo, la pornografia — nel senso politico del termine — diventa sempre più unico luogo dove il discorso assume forma, conflitto, tensione, potere.
Non perché il porno sia emancipatorio di per sé.
Ma perché è uno dei pochi spazi in cui l’immaginario sul desiderio si mostra nella sua complessità — e nella sua brutalità.
“Il punto non è il sesso. Il punto è chi controlla il sapere sui corpi.”
Per femminismi e movimenti queer, la sessualità è sempre stata un terreno politico, prima ancora che intimo.
Haraway ci ricorda che non esistono corpi innocenti: siamo ibridi di tecnologie, storie, codici.
Preciado ha mostrato come il desiderio sia un dispositivo del biopotere contemporaneo: non ciò che “sentiamo”, ma ciò che impariamo a sentire dentro una grammatica sociale.
Diana J. Torres ci ha insegnato che il porno può essere usato come arma critica: un hacking del visibile, una torsione del potere dello sguardo.
Se oggi lo Stato tenta di bloccare l’educazione sessuale, non è un caso.
Significa impedire l’accesso a linguaggi, genealogie, strumenti di lettura del reale.
Significa controllare la produzione culturale del desiderio, non la sua pratica.
Significa imporre un modello di corpo: silenzioso, docile, leggibile, normato.
È qui che il porno — come forma culturale — torna centrale.
Il porno come campo di battaglia dell’immaginario
La pornografia non è un genere artistico né una categoria morale.
È una tecnologia dello sguardo, un laboratorio del desiderio, uno dei luoghi in cui la società mette in scena ciò che non riesce a dire in altri spazi.
Ed è proprio per questo che il porno è diventato, negli ultimi anni, un campo culturale conteso: da una parte, piattaforme e mainstream che producono consumo e standardizzazione, dall’altra, scene politiche e artistiche che provano a disinnescare le forme della rappresentazione e in mezzo, una moltiplicazione di pratiche educative e terapeutiche che rispondono a bisogni reali ma non necessariamente critici.
Il punto non è scegliere “da che parte stare”, ma riconoscere che il porno è uno spazio dove si gioca la possibilità di immaginare altri corpi e altri mondi.
Ciò che accade oggi all’interno delle culture post-porno ci riguarda, ma non ci definisce.
Negli ultimi anni, molte realtà che lavorano sul porno politico hanno aperto una discussione necessaria: cosa succede quando un immaginario nato per deviare diventa riconoscibile? Quando la rottura si fa stile, quando la crepa si fa linguaggio? È un confronto importante, che ha rimesso al centro il rapporto tra desiderio, potere e forma.
Ma il terreno che attraversiamo non coincide automaticamente con quello dei festival, delle estetiche codificate o delle produzioni audiovisive radicali.
Il nostro lavoro si colloca su un piano differente: non la curatela del post-porno come scena culturale, ma la critica dei dispositivi dello sguardo che rendono il desiderio rappresentabile o invisibile.
Non ci interessa difendere un genere alternativo o un’estetica antagonista: ci interessa capire quali forze organizzano ciò che può essere raccontato, filmato, immaginato, desiderato.
Per questo ci collochiamo dentro quel dibattito, ma da un’altra angolatura: non per affermare una nuova scena, ma per interrogare le condizioni politiche che permettono a qualsiasi scena di esistere — e di non essere immediatamente normalizzata.
Quando il porno diventa forma riconoscibile, perde potere critico
Ogni linguaggio radicale, quando viene codificato, rischia di perdere ciò che aveva di disturbante. Sta accadendo anche alla cultura post-porno: normalizzazione, formato, estetica replicata, target, evento.
È un fenomeno comprensibile — accade a tutte le controculture — ma non va ignorato. Perché un immaginario sovversivo, quando diventa genere, rischia di non interrogare più lo sguardo: lo accontenta.
E se il porno smette di fare attrito, smette di avere senso politico.
In questi anni, alcuni spazi sociali e culturali hanno scelto di interrogare il porno non come contenuto ma come dispositivo: non per mostrarlo, né per spiegarlo, ma per capire cosa produce.
Dentro questi attraversamenti – a cui abbiamo partecipato anche noi, insieme a compagne, artiste e ricercatrici all’interno degli appuntamenti curati al TPO con il collettivo “Inside Porn” – il punto non è mai stato “parlare di sesso”.
Il punto era mettere a nudo lo sguardo: seguirne le fratture, le omissioni, le rigidità.
L’attenzione non era sulla scena erotica, ma sui suoi bordi: opacità, scarti, gesti interrotti, estetiche precarie, corpi che non coincidono con le aspettative.
Più che costruire un immaginario alternativo, si trattava di disarticolare quello dominante: svuotarne le certezze, far emergere le domande che la norma tenta continuamente di ricomporre. Sulle possibilità di produrre immaginario, non identità. Sull’attrito, non sul format. Non è stato un percorso pedagogico. È un percorso politico.
E lo sarà ancora, perché il lavoro sugli immaginari è un processo, non un evento.
In un tempo di censura, è l’immaginario il primo territorio da difendere
Se oggi lo Stato vieta di parlare di sessualità nelle scuole, allora il lavoro sugli immaginari diventa ancora più urgente.
Perché quando si zittisce il sapere, a parlare rimangono: la pornografia mainstream, l’educazione informale tra pari, le estetiche commerciali del desiderio, il moralismo digitale o la mera rappresentazione come unica pedagogia possibile.
Il nostro compito — politico, culturale, collettivo — è aprire spazio a ciò che non è già codificato.
A corpi che non servono. A immaginari che non rassicurano. A desideri che non si lasciano cartografare. A dispositivi che non riproducono la stessa scena.
Finché ci sarà uno spazio per questa pratica — dentro o fuori i centri sociali, dentro o fuori le scene culturali — il porno non sarà un genere da replicare.
Sarà un luogo di conflitto da attraversare.
E in un Paese che vieta perfino di parlare di educazione affettiva a scuola, forse è proprio lì che dobbiamo stare.
