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Dal campo profughi di Shatila in Libano – a cura della delegazione di Boxe TPO

La scorsa settimana una delegazione di Boxe della palestra Popolare TPO si è recata al Campo profughi di Shatila in Libano, dove, al Palestine Youth Centre insieme a Basket Beats borders e ai ragazzi e le ragazze dei Corpi civili di Pace della ONG “Un Ponte Per” hanno svolto attività con le bambine e i bambini del campo. 

Sui social del TPO e della Palestra popolare TPO potete vedere un po’ di immagini; qui un primo rimando dell’esperienza appena vissuta.

Lunedì 1 luglio ne parleremo al Pizzoli durante la No Border Cup.

Siamo arrivatə all’epilogo della nostra breve ma intensa esperienza a Beirut.

Entrare nel campo di Shatila come delegazione della palestra popolare Tpo e poter vedere con i propri occhi lo scorrere della vita nel campo é stato per noi un onore. Ci portiamo a casa un’esperienza di crescita che non vediamo l’ora di condividere con le compagnə che ci hanno supportato sin dall’inizio di quest’avventura.

Nel campo di Shatila vivono più di 25.000 persone, per lo più siriane e palestinesi, in un’area non più grande di 1 chilometro quadrato. La zona densamente abitata si estende verso l’alto, e le abitazioni, senza fondamenta, vengono costruite, mattone su mattone, su piani sempre più alti.

Per arrivare al Palestine Youth Center, entrando dalla parte nord del campo, si deve attraversare una fitta rete di viuzze, affollate e rumorose, piene di piccolissimi esercizi commerciali: fornai, sartorie, piccoli bazar, venditori di tè, spezie, carbone, ci sono anche delle piccole farmacie e officine. A Shatila si vende di tutto, non esistono scarti, “la ricchezza delle persone si misura dagli scarti che producono” ci dice il nostro amico Majdi.

Sopra le nostre teste si estende un grande groviglio di fili elettrici e tubi dell’acqua, e in alto sui tetti si trovano le cisterne per la raccolta dell’acqua, pompata direttamente dal mare e per questo salata. Al campo non esiste una rete fognaria.

Alcune zone del campo sono fortemente politicizzate, e identificabili dai simboli dei partiti che vi gravitano intorno. Non tutto è stato evidente ai nostri occhi, tra quello che non abbiamo visto ma sentito, può succedere che esplodino faide tra famiglie che si contendono il controllo all’interno del campo.

Con Majdi ci siamo incamminatə anche nei vicoli più stretti, dove l’aria diventa rarefatta e la luce del sole fatica a passare, il tasso di umidità è molto alto e durante la stagione delle piogge si allaga tutto, costringendo le persone a restare sui piani alti, o a rischiare la vita per scendere in strada in mezzo all’acqua e riattaccare la corrente. Portare la luce a Shatila non è stato semplice, a testimonianza del fatto che tra i martiri palestinesi ci sono anche “i martiri della luce”. I blackout a Shatila e in tutta Beirut sono molto frequenti, e l’uso dei generatori comporta costi non indifferenti.

Majdi vive al campo da quando é nato, é un palestinese, e al centro ha dedicato tutta la sua vita, ama lo sport e allena una squadra di basket femminile e una squadra di calcio maschile. Nel centro si tiene anche un corso arabo-inglese e un corso di disegno. E da qualche tempo si pratica anche la boxe, grazie all’impegno di Hammad e Hammad, due maestri palestinesi (non riconosciuti dalla federazione libanese), che prima degli allenamenti corrono con uno scooter su e giù per il campo per andare a prendere i bambini più piccoli e portarli al corso.

Il campo è continuamente attraversato da motorini strombazzanti, che si mescolano nel groviglio di persone che tutto il giorno, affaccendate, si riversano in strada.

Al centro siamo statə accoltə anche dai ragazzi e le ragazze dei Corpi Civili di Pace della ONG “Un ponte per”, che collaborano con Majdi e ci hanno supportato nel corso della nostra esperienza.

Nel campo ci sono tre scuole dell’UNRWA, le uniche dove possono andare i bambini e le bambine palestinesi. I siriani possono frequentare le scuole libanesi, ma in orari e momenti diversi, anche se il tasso di dispersione scolastica è altissimo.

I bambini e le bambine sono tantissime al campo, dove la vita esplode come chiara risposta di un popolo oppresso che resiste e guarda al futuro.

Istruzione e salute rimangono diritti ancora fragili all’interno del campo, dove non ci sono ospedali ma piccole cliniche dell’UNRWA. D’altro canto i palestinesi rifugiati non possono svolgere un qualsiasi lavoro, anzi, sono esclusi da moltissime professioni elencate in una lista specifica. Sono ammessi solo lavori come fornai, pasticceri, muratori, sarti…e sono escluse le professioni che prevedono un’iscrizione all’albo.

Nonostante le difficoltà della vita all’interno del campo, nonostante la povertà in netto contrasto con l’ ostentata ricchezza di una borghesia libanese in declino, nonostante l’indifferenza internazionale, nonostante nel campo non cresca un albero e si fatica a vedere il cielo, abbiamo visto e riconosciuto la dignità di un popolo che ha fatto della resistenza la propria ragione di vita.

Lo abbiamo riconosciuto in Majdi orgoglioso di sventolare la bandiera della Palestina perché “this is my land” diceva con il tono della voce più dolce che abbiamo mai sentito, e lo abbiamo visto negli occhi dellə bambinə, che si illuminavano quando nel presentarsi dicevano sorridendo di orgoglio “I am from Palestine“.

In questi giorni a Shatila abbiamo imparato tanto, abbiamo fatto sport e stretto relazioni, ci siamo interrogatə, ci siamo commossə e ci siamo divertite, abbiamo ricevuto tanto da non poter mai ringraziare abbastanza, ma speriamo di aver lasciato anche noi un piccolo segno che possa rafforzarsi e crescere nel tempo attraverso la solidarietà della nostra comunità e la grande famiglia di Sport Beats Borders.

Yalla Yalla, Free Free Palestine