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Come accennato nella relazione introduttiva, uno dei temi che caratterizzano il dibattito pubblico è certamente la “rivoluzione digitale”: non vi è dubbio che il digitale stia impattando le nostre vite, non meno di quanto lo fossero state quelle dei nuovi operai della Londra del 1850 con l’introduzione della macchina a vapore.
Quando parliamo di rivoluzione però non intendiamo solo un grande cambiamento dal punto di vista tecnologico, ma intendiamo profonde trasformazioni sia per quel che riguarda il sistema produttivo/economico che sociale.
Se da un lato la digitalizzazione permette un accesso alle informazioni di qualsiasi tipo con pochi clic (pensate ad una ricerca d’archivio dall’altra parte del mondo prima, ed ora con la digitalizzazione degli archivi di numerose università/istituzioni), dall’altro lato il prezzo da pagare non è solo quello relativo al dispositivo e ai costi di connessione.
Partiamo da alcuni elementi preliminari che si scontrano in primissima battuta con la narrazione che vorrebbe lo sviluppo digitale come mitigatore delle distorsioni dell’era industriale: il digitale non è democratico, abbiamo visto tutte/i durante i mesi di lockdown quanto il digital gap sia una realtà nelle periferie e nei contesti marginali, sia dal punto di vista economico che geografico (città/campagna) e non solo un problema che riguarda i paesi in via di sviluppo
il digitale non è a impatto ambientale zero: il Litio necessario ad alimentare le batterie dei nostri dispositivi così come quello delle auto elettriche ecc. non è certamente una risorsa scarsa come il petrolio, tuttavia ha processi di estrazione costosi in termini ambientali e non è difficile prefigurare nuovi luoghi di estrazione che riguarderanno anche il mar Mediterraneo
Lo smaltimento del Litio e del Cobalto ha dei costi elevati e attualmente non si ricicla più del 10% del litio proveniente da dispositivi in disuso, l’energia utile a ricaricare le batterie viene generata attraverso centrali elettriche alimentate a carbone, quindi ad un aumento della richiesta di energia elettrica, è evidente che sarà maggiore il carbone necessario ad alimentare una centrale.
Andando tuttavia più in profondità, quello che ci interessa sottolineare quando parliamo di rivoluzione digitale, è non tanto il dispiegamento tecnologico in sé quanto i rapporti di produzione ad esso legati.
Quando pensiamo infatti alle big companies come nuovi e-rentier della produzione sociale, intendiamo sottolineare il meccanismo parassitario di accumulazione che si nasconde dietro l’interazione digitale di ognuno di noi.
Accumulazione e valorizzazione che si basano sull’estrazione di dati in grado di alimentare l’eterna distopia del capitale, ovvero il sogno di una produzione che scorre liscia, senza conflitti e contraddizioni, perfettamente razionale ed efficiente.
I dati, infatti, non hanno valore in sé, ma rappresentano lo strumento attraverso il quale si rinnova il sogno dell’efficienza del mercato, dati previsionali che come per i mercati finanziari hanno la pretesa di anticipare il futuro per rendere più efficiente la valorizzazione delle merci. E’ a partire da questo che i dati assumono immediatamente anche valore di merce.
Nel lavoro che svolgo (advertising su motori ricerca) ad esempio, ho visto negli anni aumentare sempre più i dati previsionali legati all’intenzione d’acquisto che si basano sui dati di navigazione degli utenti in combinato disposto ad una sempre maggiore centralità del machine learning di Google, nell’ottica duale del miglioramento dell’esperienza di navigazione da un lato (utenti) ed efficienza dell’investimento in advertising dall’altro (aziende).
Questa tendenza mostra plasticamente la centralità dei dati che da un lato foraggiano il machine learning (algoritmo), aumentando l’automazione, e dall’altro mettono in crisi il settore degli specialisti di advertising, che saranno sempre meno necessari alla creazione di campagne pubblicitarie, mostrando una ulteriore traiettoria legata ai processi tecnologici del capitalismo 4.0 caratterizzato da mix tecnologico di automazione (algoritmi) e informazione (dati).
Come sappiamo però, i rapporti di produzione sono sempre duali. Nella tensione tra capitale e lavoro, tuttavia, mentre ci appaiono chiari i dispositivi di estrazione di valore non scorgiamo ancora in forma completa i dispositivi di resistenza.
Dovremmo però fare lo sforzo di non leggere il lavoro con le chiavi tradizionali, una volta messa a lavoro la riproduzione sociale non è possibile scorgere avanguardie rappresentative della molteplicità, né individuare forme di sottrazione da essa.
Non è possibile immaginare un fuori dalla rivoluzione digitale, ma dobbiamo sforzarci di immaginare come metterne in crisi i dispositivi di cattura di valore: se il lavoro (e torna la dualità) è sia merce che rapporto sociale, dovremmo lavorare in quella contraddizione per restituire un’ipotesi di messa in discussione a partire da un assunto molto semplice, ossia “il lavoro si paga”. Le big companies, infatti, agiscono in un vuoto normativo che permette ad aziende con fatturati miliardari, attraverso la cosiddetta “ottimizzazione fiscale” (altro esempio di razionalità capitalistica), di spostare utili nei paesi dove il prelievo fiscale è molto basso, tutto ciò ha permesso a questi gruppi di risparmiare negli ultimi 5 anni circa 50 miliardi di tasse.Questo esempio dimostra come non ci sia più nessun vincolo di obbedienza tra mercati e governi nazionali.
Se immaginiamo quindi una tassazione delle e-companies che vada a redistribuire quote di ricchezza attraverso reddito di base e welfare, diviene immediata la necessità di dispiegare questo tipo di rivendicazione su un piano che sia transnazionale, consapevoli di quanto la rivendicazione del reddito sia continuamente stigmatizzata e avversata da parte dei partiti liberal (si veda la proposta di referendum di Renzi).
Abbiamo imparato in questi anni a confrontarci con l’ambivalenza della sharing economy: promessa di accesso ai servizi a prezzi competitivi (basti pensare all’impatto di Uber sui trasporti nelle grandi città europee) e precarizzazione delle vite di migliaia di lavoratori che, dietro l’illusione di essere nuovi padroncini, mettono a servizio se stessi e i propri mezzi in cambio di dati.
A proposito di dualismi, infatti, le società di piattaforma forniscono un servizio che è distinto dal servizio fornito dal gig worker, forniscono cioè un “servizio informativo”. In cambio di questo servizio, esse addebitano una commissione per ogni transazione effettuata tramite la piattaforma. L’aspetto fondamentale è che, oltre ad estrarre una rendita da ogni transazione che orchestrano, le piattaforme estraggono anche dati su queste transazioni, ciò significa che anche i gig workers possono essere intesi verosimilmente come un “servizio informativo” per le piattaforme che utilizzano.
Lo stesso meccanismo lo possiamo vedere su Airbnb con l’aggravante che si è in breve tempo trasformato nel principale agente della trasformazione urbana della nostra città a tutto vantaggio della rendita di piccoli padroncini e grandi holding e a scapito dei ceti popolari, espulsi gradualmente sempre più fuori dalla città e dalle sue principali aree di interesse.
Anche quando parliamo di economia di piattaforma legata al food delivery ritroviamo lo stesso dualismo legato ai dati, mediato però dall’algoritmo che gestisce la mobilità e giudica l’efficienza dei rider e si alimenta attraverso i loro dati.
Va però in questo caso approfondito un aspetto legato al ranking poiché l’indice di valutazione insiste sui rider anche in questo caso in maniera ambivalente.
Se da un lato si caratterizza come il tempista della catena di montaggio applicato alla gig economy promuovendo e incoraggiando comportamenti favorevoli alla reputazione del rider nei confronti della piattaforma e dei colleghi/competitor, dall’altro, proprio come il tempista della catena di montaggio, è stato tra i primi motivi di attrito tra forza lavoro e algoritmo/piattaforma.
Proprio le lotte di cui siamo stati protagonisti accanto ai riders ci hanno indicato una traiettoria di lavoro politico che merita un’ulteriore scommessa all’interno della quale far convergere la ricchezza delle relazioni che mettiamo in campo dentro e fuori i nostri municipi sociali, nella complessità del presente.
L’esperienza di queste mobilitazioni, così come il dispiegarsi di altri movimenti legati a doppio filo alla messa in discussione dei rapporti di produzione e riproduzione sociale, basti pensare a ni una menos e ai movimenti ambientalisti, mostra come lo scontro con il capitale, nonostante il tentativo di rendere la produzione “liscia”, trovi irrimediabilmente degli intoppi e delle incrinature, rilevando ancora una volta il dualismo irrimediabile tra capitale e lavoro, anche quando le forme dell’uno e dell’altro si allontanano dalle categorie che abbiamo conosciuto nel secolo scorso.
Dare spazio, dentro e fuori i nostri municipi sociali, alla vitalità della forza lavoro è la premessa del lavoro di ricerca politica che abbiamo dinanzi.