Comparso in esclusiva su Dinamopress il 28 settembre 2021
Sono passati quasi due anni dall’inizio dello sconvolgimento pandemico che ha imposto una dinamica stop&go al nostro agire politico e, mentre abbiamo cercato di mantenere l’attenzione necessaria per riconoscere come questo sconvolgimento stesse accelerando drasticamente i processi di ristrutturazione di capitale, ci rendiamo conto che il nostro dizionario politico, da tempo, non era all’altezza per scontrarcisi. Allora, per superare l’adagio “non più/non ancora” e collocarci in una dimensione in cui siamo già – il qui ed ora che per noi è Bologna, settembre 2021, municipi sociali interdipendenti – abbiamo deciso di prenderci uno stop di qualche giorno per iniziare a dotarci di nuove lenti per le sfide collettive del futuro. Proviamo a condividere un estratto della discussione che ha avuto luogo l’11 e 12 settembre, per esporre le tendenze del nostro posizionamento politico per l’anno che verrà e per darci le coordinate di lavoro e di ricerca.
Siamo nel mezzo di processi di cambiamento epocali/geologici e abbiamo bisogno di nuove lenti per maneggiare la realtà, cioè per far sì che la rivoluzione intorno a noi diventi la nostra rivoluzione. Incontrare scienziati e nuove realtà su un piano politico complessivo, aprire a diverse forme di conoscenza del reale.
Le nostre comunità politiche vivono una fase di stallo nella produzione di strumenti e pratiche adeguate alla nuova Era, e le letture dei “post-” e degli “-ismi” non riescono a inquadrare bene il presente, ancorandoci a un passato che non torna. Siamo in un’era in cui le grandi trasformazioni che si daranno sulla Terra, nel digitale e nello spazio oltre il cielo, attraverso sistemi complessi che integrano forza e intelligenza umana, cyborg, algoritmi, non sono raffigurabili in definizioni monolitiche. Se lo stesso capitale è sempre stato una relazione e mai un Moloch, così i “beni comuni” o il “lavoro” non sono entità fisse e immobili fuori dagli spazi di transito.
L’acqua e l’aria, per esempio, si sono sempre trasformate e sono sempre state in relazioni di potere umane o postumane, così come gli stock di dati e le informazioni sui corpi e sulle specie, sono mobili e utilizzabili. Natura e cultura sono arrivate a un nuovo livello di scontro ed interdipendenza che rendono ancora più palese quanto un ritorno idilliaco alla genuinità sia un privilegio per pochi, ricchi, a fronte di un alto grado di scontro già presente nelle dinamiche ad altissima intensità di cooperazione sociale per l’affermazione di benessere.
Il concetto di “resilienza” come capacità di adattamento dentro e non contro le nuove forme di dominio del capitale, nasconde sotto il tappeto le reali dinamiche di scontro che si danno nei processi di convivenza con le urgenze vitali del nostro tempo. Una rivoluzione è già in corso e le ideologie del passato e del presente non fanno altro che tenerci lontani, insieme alla gran massa delle persone, dall’esserne padroni.
La digitalizzazione appare come il principale processo che ha trasformato il mondo degli anni ‘00. La capillarità del fenomeno, accostata a un dato che vede un 66,6% di popolazione mondiale connessa alle reti, ci mostra la digitalizzazione come uno spazio non democratico utilizzato per riprodurre le disuguaglianze.
Sono più visibili di prima i meccanismi di digital gap sia dentro i nostri territori che dentro lo spazio globale. Le narrazioni di orizzontalità ed ecosostenibilità dell’era digitale, però, stanno crollando, in quanto è reso più palese come il mantenimento dell’ordine digitale continui a basarsi su estrazione predatoria e smaltimento tossico di materie prime e non rinnovabili quali il litio, mentre il sempre crescente fabbisogno energetico continua a basarsi su centrali elettriche alimentate a carbone.
La nuova era digitale è già una realtà totalizzante, in cui il capitalismo finanziario ha sussunto completamente la realtà, mostrando in maniera più diretta l’antagonismo irrisolvibile tra esso e la vita. Questa relazione di potere è complessa e ibrida, perché la nuova aristocrazia finanziaria accumula surplus su ogni interazione digitale tramite algoritmi di calcolo previsionale a partire dai dati. È il sogno dell’efficienza del mercato, anticipare il futuro per rendere più efficiente la valorizzazione delle merci e valorizzare lo stesso scambio di dati. Ma, mentre appare evidente come non esista un al di fuori della rivoluzione digitale, è più difficile che mai pensare come mettere in crisi i nuovi dispositivi di messa a valore. Ma è tempo di iniziare a farlo.
Siamo nell’epoca di una macchina totale che si definisce a partire dalle condizioni poste da un sistema biologico complesso, un algoritmo vivente che si articola in forme di comando attraverso relazioni globali e territoriali, il “comando finanziario”: un rinnovato rapporto di potere in cui la crescita esponenziale della voracità dello sfruttamento è basata secondo nuove regole e codici redatti tramite algoritmi che rispondono unicamente alle proprie regole.
Un potere sconfinato che si è nutrito di vuoto normativo e che ha permesso alle big companies (Google, Amazon, Facebook) di aggirare qualsiasi tipo di vincolo di obbedienza fra mercato e governi e di imporsi come nuove superpotenze economiche private accanto alle vecchie potenze nazionali, al crimine organizzato, alla Chiesa ed all’Islam politico in via d’espansione. Il piano di comando è quello globale e tutti vogliono starci dentro.
All’interno della nuova relazione di comando, la forza lavoro del soggetto postumano, benché sempre più sociale e cooperante, integrando cyborg e alta capacità comunicativa, appare sempre più impoverita, precaria e depoliticizzata. Vive il paradosso di poter disporre in potenza di una elevata capacità produttiva autonoma ma di sopravvivere in maniera sempre più asfissiante sotto il comando del Capitale, e molto spesso di sentirsi isolata. È il modello delle piattaforme e della città piattaforma, che sottopone il lavoro vivo al continuo ricatto del ranking di una performance spacciata come autonoma, mentre queste acquisiscono rendite sia sulle transazioni tramite applicazione sia sui dati che ne riescono a estrarre.
È nella ricerca di queste nuove fratture nei rapporti di potere e nell’indagine di nuove pratiche del conflitto che ci interroghiamo allora sulla multidisciplinarietà nei nostri rapporti, nell’indagare le città come miniere di dati che esprimono un potenziale conflitto, nel praticare forme diverse di messa in relazione, di lavoro sociale, di autogoverno, di municipalismo, di mutualismo, di impresa politica e di cercare i collegamenti che tra queste forme avvengono nel lavoro vivo politicamente liberato.
Questa multidisciplinarietà è relazione, non autonoma, ma interdipendente. All’interno di questa noi siamo una parte che sperimenta e si ibrida, ma allo stesso tempo cerca di darsi indicazioni di carattere politico per costruire uno spazio politico di liberə Autonomə nel postumano. Abbiamo iniziato a fare queste sperimentazioni a partire dai luoghi che più abitiamo, i municipi sociali.
È tempo, allora, di trasmettere un’immagine chiara del municipio sociale, che è l’indicazione di ricerca aperta nei nostri spazi di Bologna da circa due anni. L’immagine è quella di un cancello aperto, attraversato continuamente da questa forza lavoro. Sono spazi che non si gestiscono ma si autogovernano, sempre aperti a soggettività parziali, diverse e autonome che interdipendono fra di loro.
Sono gli spazi della pluralità dei progetti politici intercomunicanti, dell’incontro fra forme vive di lavoro cooperante che si ibridano dopo anni di crisi, dell’organizzazione di queste interdipendenze per affrontare nuovi paradigmi di conoscenza e relazioni, della ricerca di reddito per liberarsi dal ricatto del lavoro salariato. Sono attraversati, anche a causa delle accelerazioni dovute alla pandemia e all’aumento del lavoro sociale in essi contenuto, da attivisti, volontari, lavoratori, operatori pubblici e privati, storie e culture sociali diverse. Quale dispositivo si danno per stare insieme e come portare un pensiero di parte all’interno di queste interdipendenze, è quello su cui ci siamo interrogati.
Il dispiegarsi di nuove forme organizzative e relazionali ci ha portato a mettere in discussione il centro sociale e, parallelamente, il paradigma conflitto/consenso che ha caratterizzato gli ultimi anni della nostra storia politica.
Il corpo sociale non si configura più come esterno ai nostri spazi ed alle nostre progettualità politiche, il suo ruolo non è quello di mostrare passivamente consenso ma quello di essere partecipe dei meccanismi organizzativi come soggettività varia e cooperante che porta a nuove rotture e si fa protagonista del conflitto. Essersi organizzati con centinaia di volontari per rispondere alle difficoltà dell’ultimo anno e mezzo non è stato nella realtà il presupposto necessario per un’azione di rottura lineare (esperienza solidale e poi rottura), ma nemmeno il mero consolidamento di servizi assistenziali. Grazie a queste esperienze è stato possibile aprire a forme di mutuo-aiuto, dove il lavoro sociale è apparso non solo come un’esperienza solidale, ma come la connessione di lavoro sociale astrattamente inteso.
Alleanze tra medici e badanti, tra educatori e logisti, tra informatici e biologi, tra ciclisti e cuochi, tra ricercatori umanisti e scientifici e tra scienziati multidisciplinari, da un lato e dall’altro del cancello. È in questo modo che i nostri municipi sociali, luoghi di convergenze e riconoscimenti reciproci, di organizzazione dei bisogni tramite pratiche di mutualismo e luoghi di lettura di specificità sociali e territoriali, si configurano come dei luoghi per l’organizzazione politica. Il sociale dei nostri municipi non è stato un rapporto di cura fine a se stesso, ma un impegno a potenziare e moltiplicare la forza per determinare i rapporti di cura per tutti all’interno del territorio pubblico e metropolitano. Cercando di astrarre, dunque, i municipi sociali sono spazi in cui si è obbligati a ricercare un rapporto di alta interdipendenza fra loro e le organizzazioni e progettualità che li attraversano.
Tutti questi sono rapporti che abbiamo costruito e trasformato negli ultimi anni con fatica e abnegazione. Sono macchine già in moto che si rendono manifeste sulla griglia di partenza della nuova stagione politica.
La vera sfida del nostro presente è, invece, quella di trovare nuove modalità di organizzazione di queste interdipendenze, nuove modalità di federazione delle autonomie, nuovi dispositivi di conflitto che siano in grado di fare del male al comando finanziario.
Dispositivo organizzativo nei municipi sarà lo studio di un algoritmo sindacale, che sia in grado di estrarre conflittualità indagando i nostri municipi sociali come miniera di dati vivi, per ricomporre le frammentazioni della forza lavoro, collegare le lotte sul lavoro manuale e digitale alle lotte sul terreno della riproduzione sociale e del welfare, organizzare il conflitto attorno ai bisogni reali restituendo protagonismo alle soggettività in lotta. Ci stiamo domandando inoltre come creare nuove forme di impresa politica, strumenti cooperativi e imprenditoriali in grado di riappropriarsi del valore prodotto dai lavoratori autonomi e politici che attraversano i nostri spazi, e come metterle in connessione con altre imprese politiche.
Siamo consapevoli che portare fino in fondo questo tema aprirà un campo di ricerca enorme sull’organizzazione: non più solo assemblee in presenza tra liberi e uguali ma assemblee interdipendenti ramificate tra diversi modi di organizzarsi economicamente nella società, autonomi. Sarà dura, ma è necessario sperimentare. Così come l’impresa politica, l’autogoverno è un terreno di ricerca non scontato: noi siamo una parte, interdipendente con tante altre, e nell’alta interdipendenza con sistemi pubblici e privati vediamo riconfigurarsi i punti di scontro e di tensione per affermare l’esistenza dei municipi sociali.
C’è bisogno di tanta forza e intelligenza per vincere gli scontri per l’autogoverno degli spazi, abbiamo bisogno di autogoverno, ma non può essere una forma avulsa dal resto della società. Una tensione che non si risolve con un puro ritorno alla legalità, ma anzi, ricercando ancora di più l’antagonismo con le forme parassitarie dello Stato regolatore, da un lato, e con il profitto predatorio, dall’altro, e trovando in questo antagonismo nuovi alleati proprio tra le diverse forme del lavoro pubblico e del lavoro privato.
Organizzare l’interdipendenza significa adottare un approccio multidisciplinare. Dare spazio alla scienza per produrre nuova conoscenza politica condivisa. L’autogoverno quindi non corrisponde linearmente con il municipalismo.
Il terreno di competizione politico elettorale non può essere intrapreso in termini lineari con la proposta di una repentina sostituzione di pratiche di governo verticale con pratiche di autogoverno orizzontali. Per dirla in modo semplice, non crediamo che i municipi sociali debbano sostituire i municipi amministrativi. La banalizzazione di questo passaggio ha lasciato la strada spianata per l’estetica dei progetti partecipativi, ma poco spazio alla composizione di una forza politica autonoma realmente ancorata al sociale.
La sfida dei municipi sociali è di riconoscersi sì come entità che già producono gli elementi per l’affermazione di un potere politico organizzato in forme nuove, ma di farlo insieme a tanti altri. Il municipalismo è allora un terreno di ricerca di un rapporto diretto tra il potere e la società, non mediato da vecchie forme di partito. Infine, ma non per ultimo, nei municipi sociali ci si interroga sull’efficacia del conflitto, fare male a chi fa male e a chi gode parassitariamente dei benefici del male.
Nel tempo dell’assemblea in presenza integrata digitalmente, che è anche il tempo del dibattito sulla democrazia dei referendum online, il tempo dell’affermarsi di sportelli di lotta e progetti di mutuo-aiuto, ma anche il tempo della maturazione del concetto di imprenditoria autonoma nella società, è possibile trovare la strada per tenere politicamente insieme tutto questo?
Le nuove contraddizioni stanno maturando, è tempo di essere pronti a coglierne i frutti. Buon lavoro a tutte e tutti noi.