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Il 25 aprile 1945 l’Italia viene liberata dal nazifascismo e dall’orrore nero. Tanti ragazzi e tante ragazze hanno sacrificato la loro vita per la causa partigiana e per dare la libertà al proprio popolo. Ma i partigiani non finiscono quel giorno così come non finiscono i fascismi da combattere. Sulle montagne del Kurdistan persiste la resistenza del popolo curdo. Compagne e compagni fucile in spalla tengono testa alle incursioni della Turchia e dei suoi alleati. L’anno scorso come YaBasta! Bologna abbiamo partecipato ad un viaggio nel Kurdistan del Sud come parte di una delegazione internazionalista. Il viaggio è coinciso con le celebrazioni del Newroz sulle montagne di Qandil. Quello che segue è un resoconto del viaggio e alcune sue impressioni.
Con questo testo vogliamo celebrare il giorno della Liberazione e guardare alle resistenze di oggi.
Alle 10:30 di oggi saremo in Piazza dell’Unità per il corteo di Bologna.
Viaggio in Kurdistan: il fuoco della Resistenza e del Confederalismo democratico
Il piccolo pulmino Nissan avanza incurante degli anni e del numero di passeggeri lungo l’ennesima salita. Ad ogni dosso preso a velocità sostenuta è come se l’albero motore gridasse al mondo la sua volontà di sentirsi invincibile, all’interno dell’abitacolo tuttavia le sue gesta passano quasi inosservate.
È la musica a farla da padrone, i canti, le mani che ondeggiano, quelle che battono, i bambini che vengono passati di fila in fila tra un parente e l’altro. Il viaggio verso il Newroz di Quandil, “il vero Newroz” come lo chiamano da queste parti, può considerarsi una festa a se stante. È il viaggio di un popolo che si infila in auto e pulmini affaticati per raggiungere il posto che più hanno a cuore, lì sulle montagne dove la guerrilla tiene testa al potente esercito della Turchia e ai tradimenti dei vicini di casa.
Durante questo viaggio, negli occhi e nei sorrisi delle persone puoi scorgere quanto orgoglio ci sia nel sentirsi parte di tutto questo, e quanto questo orgoglio cresca ad ogni chilometro che passa. La salita prima del checkpoint fin da subito appare qualcosa di leggendario, innumerevoli tornanti si avvicendano ad una ripidità da far pensare che quell’albero motore di cui sopra gridi infine pietà. Ma non succede. Il piccolo Nissan avanza ancora fino alla fine dandoti la sensazione, o forse la speranza, che nessun esercito potrà mai fare lo stesso. Quando si arriva finalmente al posto di blocco solo per qualche istante l’autoradio si spegne, ci si ferma per un breve saluto, un uomo o forse una donna si avvicina al finestrino dell’autista, si scambia qualche battuta e poi alza al cielo il segno di vittoria per salutarci.
Davanti a noi un ritratto di Ocalan disegnato sulla montagna conferma per chi fosse ancora dubbioso di essere nel posto giusto, tra le montagne del Pkk, lì dove tutto sembra possibile e dove tutto trova ragione di essere. Fatto qualche metro, persino l’autista, che fino ad allora sembrava aver poco digerito il concerto sonoro, alza il volume al massimo, aumenta ulteriormente la velocità e inizia a suonare il clacson ad ogni macchina che incontriamo. Ad ogni picnic partono i saluti, le braccia dai finestrini, i sorrisi. Del resto è impossibile sbagliarsi, chi ha scelto di festeggiare il newroz tra queste montagne condivide lo stesso ideale, lo stesso fine, gli stessi sogni e spesso gli stessi lutti. Lutti che segnano tutto il Kurdistan e soprattutto le montagne di Qandil dove è presente un grosso cimitero dedicato ai martiri della guerrilla, tappa fondamentale per ogni internazionalista che varchi questi passi di montagna.
Tra queste tombe è racchiusa tutta la tenacia dei compagni e delle compagne delle montagne. File pulite e perfettamente simmetriche di lapidi di marmo vengono ricostruite puntualmente ad ogni bombardamento nemico e pulite con cura da decine di ragazzi. Alcune tombe sono vuote perchè le bombe hanno spazzato via i resti dei nomi iscritti sulle lapidi ma non le loro storie.
A questo punto chi si aspetterebbe racconti leggendari di gesta eroiche sui campi di battaglia rimarrebbe inevitabilmente colto dalla delusione. A poco a poco ci rendiamo conto di come quello che stiamo percorrendo non sia un cimitero militare ma un cimitero di martiri del popolo. Le storie che vengono tramandate sono quelle di chi ha dato l’esempio nella vita collettiva. Nessuno ci parla di nemici uccisi sul campo di battaglia, di granate schivate e mirabolanti incursioni notturne.
Quello che viene raccontato è la storia del compagno che riprendeva chi consumava troppi fazzoletti a tavola, di chi lasciava sporco dopo aver mangiato o di chi veniva sempre ascoltato per un consiglio, dopo un’assemblea o prima di andare a dormire. Lì sono così. Si soffermano sui piccoli gesti per costruire grandi cose. La noncuranza è il primo dei nemici, prima ancora dei razzi e dei colpi di artiglieria. E di noncuranza da quelle parti non se ne vede proprio, neanche nei momenti più di tensione o di stress quando le giornate sono lunghe, le pioggie infinite, il sorriso si allenta e il fango complica ogni cosa.
È un concetto di cura particolare che riguarda la dimensione collettiva, la quale non viene mai prevaricata da quella personale. In ogni momento sai che ci sarà più di qualcuno o qualcuna dietro di te pronto a continuare il tuo lavoro, a sostituirti e richiamarti ad una pausa prima ancora che tu stia accusando stanchezza. È come stare su di un palco di teatro dove ad ogni azione hai ben chiaro dove siano e cosa stiano facendo gli altri attori e attrici. Ma sulle montagne non ci sono attori ma solo compagni.
Il Newroz è una festa collettiva ma anche popolare, fortemente familiare. Ci si ritrova sotto ad una tettoia accanto al fuoco con persone di tutte le età.
Ai più giovani viene dato l’onore di portare in alto sulle montagne le fiaccole. Fiamme e musica, fuoco e danza. Sono questi gli elementi che caratterizzano tutta la festa e che si sposano con la natura quasi incontaminata di quei luoghi che rende ancora più chiari i riferimenti che troviamo negli scritti di Ocalan.
In quelle montagne ci si ricongiunge con i propri compagni ma anche con se stessi e quel mondo ormai scomparso dalle città irachene, sempre più inquinate e sempre più all’inseguimento della cultura occidentale.
Le città del Kurdistan del Sud (Kurdistan Iracheno) sono un mix di tutti questi elementi e di queste contraddizioni, con le onnipresenti immagini dei peshmerga e le contraffazioni di noti marchi di moda europei. Di queste contraddizioni il PKK non si spaventa. Non vuole promuovere all’esterno una guerra fratricida ma premere per l’unità del popolo curdo contro un nemico esterno che ha avuto i colori di Saddam e successivamente quelli di Daesh e continua da sempre ad avere quelli della Turchia. Così come di tanti altri. Non si preoccupano di essere una minoranza nè si affaticano per essere i primi di una guerra tra poveri. Confidano nel loro lavoro di militanti. Confidano che ogni curdo ed ogni curda indipendentemente dalla bandiera o dai quadri attaccati a casa, alla fine giorno dopo giorno, conquista dopo conquista, abbraccerà i dettami del confederalismo.
All’interno delle famiglie, istituzione fondamentale della società curda, entra imperante e germoglia questa rivoluzione, che passa prima di tutto dalla figura delle donne. È all’interno della casa che si può notare l’emancipazione promossa dal confederalismo democratico. Un’emancipazione che è sotto gli occhi delle compagne ogni giorno e che permette loro di avere un entusiasmo ed una marcia in più perchè possono toccare con mano quanto le cose possano cambiare di civico in civico, di casa in casa.
È normale quindi imbattersi in famiglie dove la donna rimane ancora quasi chiusa nella sua cucina e altre dove non vi sono più gerarchie o ruoli prestabiliti (dagli uomini) ma anzi, spesso, sono le donne più giovani a gestire i tempi e organizzare il lavoro che oggi più che mai passa soprattutto dalla comunicazione.
Nella vita quotidiana i cellulari, la televisione e i programmi per montare video sono un elemento costante e imperante. Ogni notizia ed ogni avvenimento circola in poco tempo di mano in mano, di schermo in schermo e prima di andare a sera, prima dell’ultimo ballo e dell’ultimo sorso di tè ci sarà sicuro chi controllerà un video o un post da pubblicare. È uno sforzo notevole dove vengono investite anche importanti risorse. Non si tratta solo di messaggi sui social e sulle emittenti tv ma anche di produzione artistica che va da documentari, film, video musicali. Ogni nuova traccia inizia a circolare facendo da compagna a quelle storiche che sopravvivono al passare degli anni e alle volte anche dei paradigmi.
Ma il confederalismo democratico in tutte le sue sfaccettature e pilastri non ha solo una portata locale ma internazionale e che va oltre la liberazione del Kurdistan. I compagni, innamorati della nostra storia partigiana lo dicono chiaro ad ogni incontro, “abbiamo un grande progetto”, non sono lì per dare risposte preconfezionate ma per cercare nuovi alleati. Le domande non sono mai univoche con loro e trovano sempre risposta dopo che si sono approfonditi i ragionamenti insieme. Sono molto zapatisti in questo e non è un caso che di recente, soprattutto dopo la ultima gira zapatista in occidente, abbiano intensificato le relazioni con chi resiste in Chiapas.
Un interesse verso lo scenario internazionale che si concretizza ad ogni convegno come è stato nel caso del “Challenging Capitalist Modernity IV: We want our world back” tenutosi ad Amburgo la scorsa primavera o la “First World Youth Conference” tenutasi a Parigi lo scorso autunno. Appuntamenti che hanno visto partecipazioni da tutto il mondo volte a creare linguaggi comuni nonostante le diverse sfide e lotte locali. La sfida è mantenere la propria identità unendosi però in un disegno più grande ricercandoci e avvicinandoci anche nelle singole progettualità come nel caso dell’educazione, della salute, della lotta alla casa. Ogni lotta ha la sua dignità. Non ce ne sono di più importanti o più grandi. Il filo conduttore è il superamento di questa società e delle sue forme di dominio. L’estinzione del patriarcato, la lotta per il diritto ad esistere che passa dal Kurdistan così come dalla Palestina.
Sono le 7.30 del mattino, la saracinesca del Municipio Sociale Làbas lentamente si alza verso il cielo. A breve frotte di bambini e bambine entreranno per raggiungere la propria classe concedendosi prima ancora un tiro in porta o a canestro. Nel corso della giornata centinaia di persone transiteranno sotto di essa. In alcuni giorni, specie al mercoledì, se ne conteranno migliaia. Anche a sera quando finalmente risulterà chiusa, decine di attiviste, sindacalisti, migranti saranno all’interno, pronte ad apprendere o insegnare la lingua italiana oppure a cercare di sistemare i propri documenti.
Da qualche parte in qualche stanza ci sarà senz’altro un’assemblea o una “punta” come in genere le si chiama quando di assemblee ne hai fatte già abbastanza. In qualche altra stanza ancora ci sarà chi sistemerà un impianto audio, una sedia, il proprio camice oppure semplicemente pulirà il proprio spazio dopo l’ennesima intensa giornata. Forse a notte fonda quando ogni luce risulterà spenta anche il Municipio inizierà a dormire, pronto a risvegliarsi nuovamente.
Sono le 7.30 del mattino e la saracinesca del nostro Municipio quasi ricorda il piccolo pulmino Nissan. La brezza accarezza le bandiere e per un attimo le distanze con i fratelli e le sorelle delle montagne svaniscono. Gli ideali ed i pensieri si uniscono. Abbiamo un grande progetto.
Il testo è dedicato a Thomas Johann Spiess, internazionalista tedesco caduto martire il 15 Giugno 2023 nella regione di Xakurke. Sehid Namirin! I martiri non muoiono.