Anche a Bologna ci sono i working poors. Non lo si scopre oggi ma ogni giorno diventa più evidente e la vita diventa più insostenibile per chi fa parte di questa classe.
Esercito industriale di riserva, manodopera a basso costo, gli ultimi di una classe lavoratrice, assoldati dal campo di sfruttamento della logistica, al lavoro in zona bianca, gialla, rossa. Corpi a disposizione del capitale e di una società che li usa anche solo per qualche giorno all’anno, quando necessita di forza lavoro aggiuntiva. In cambio nessuna garanzia, niente che possa far costruire un progetto di vita e restituire dignità al vivere quotidiano. Niente formazione, sicurezza e continuità sul posto di lavoro, esposti a ritmi assurdi e alta probabilità di contagio. Niente copertura sanitaria, documenti e nemmeno un tetto sotto il quale poter riposare.
Nei municipi sociali vediamo uno squarcio di questa realtà. Una composizione silenziosa, spesso migrante, invisibile se non negli autobus o nei centri commerciali, una composizione a cui viene dato, quando va bene ma non sempre, un letto in un dormitorio nel momento in cui le temperature arrivano allo zero. Alcuni hanno alle spalle viaggi incredibili e terribili, fatti con la forza della speranza di una vita degna per loro e per i famigliari. Altri sono arrivati qua con un lavoro, tanti anni fa, ma per il dispositivo inumano e perverso che é la Bossi-Fini hanno trovato più di una volta un intoppo nel meccanismo che lega casa-lavoro-documenti perdendo il loro status di cittadini e trovandosi clandestini.
C’é il lavoro, dunque, ma c’é anche l’accesso ad un tetto degno, la necessità di spazi sicuri durante le ore del giorno, calore e energia, socialità e wi-fi, documenti e cooperazione libera. Queste persone vanno trattate non indifferentemente come grave marginalità adulta, ma come precari, esclusi per colpa del reddito.
Ken Loach è a Làbas, non lui come regista, ma i suoi potenziali personaggi. Forse questa volta però, nella città che si vuole la più progressista d’Italia, c’é lo spazio per provare ad organizzarli questi personaggi, nella società nel suo complesso, facendolo insieme.
Nei giorni scorsi SDA (lo spazio diurno autogestito di Làbas) è sceso in piazza per rompere il muro dell’invisibilità pretendendo un tetto degno che ad oggi ancora non è stato garantito ad un gruppo di persone che vive le contraddizioni della working poor class. La tolleranza di chi vive questa condizione, per fortuna, ha un limite. Entro pochi giorni aspettiamo una risposta. Le soluzioni non sono già scritte, ma alcune tracce di percorsi già esistenti possono indicare la direzione da prendere. Dall’housing first al cohousing, dalle riqualificazioni in comune di immobili abbandonati alle esperienze di mutualismo negli spazi occupati, il futuro può essere migliore.
L’esigenza è la casa, la casa devono avere.