Di 0-GP 48.
“(…) il soggetto postumano non è postmoderno. La soggettività postumana che difendo è piuttosto materialista e vitalista, incarnata ed integrata, saldamente collocata in luoghi specifici.” (R. Braidotti)
Non abbiamo dato un titolo a queste giornate di ragionamento collettivo, un po’ per scelta, un po’ perché non avremmo saputo come intitolarle.
Scegliamo di dedicare del tempo all’inizio di un anno politico che è sia complicatissimo sia, allo stesso tempo, straordinario. Dopo due anni di stop&go, nei quali siamo entrati con un dizionario politico che appare ormai polveroso come se avesse cent’anni e che iniziava con la A di austerità, ci troviamo oggi con un paese che parla di nuova politica economica, crescita, conversione ecologica, debito buono.
Molto è cambiato in questi 18 mesi e ne parleremo, ma credo che noi oggi dobbiamo fare un lavoro collettivo più ambizioso, volgere lo sguardo alle stelle e non alla polvere.
Chi ha partecipato a questa discussione è parte attiva di un corpo che si organizza in quattro municipi sociali nella città di Bologna, ovvero partecipa al lavoro politico, ne porta piena responsabilità, è coinvolto nella costruzione del percorso organizzativo.
I nostri municipi sociali sono stati costruiti partendo dalla scelta che facemmo tre anni or sono: avere un modello unico ma articolato, omogeneo ma capace di integrare e federare altri ed altre, di stare a Bologna ma pensandone il territorio come metropolitano.
Tpo, Làbas, Pizzoli e Porta Pratello sono gli organi, ognuno singolare, che compongono l’organizzazione, sui quali si innestano tante altre componenti, reti e progetti, con un’economia formale ed informale. Autogoverno e Municipalismo sono coordinate di ricerca e sperimentazione qui ed ora a Bologna, e da questo nuovo quadro si riparte per l’Europa.
Il Municipalismo non è l’Autogoverno. Sia chiaro, non è possibile usare l’autogoverno zapatista, perché non ci sono comunità omogenee, non siamo un progetto in armi contro uno Stato e perché noi siamo interdipendenti, pertanto siamo di parte ed una parte, insieme ad altre parti. Noi siamo una parte dei municipi sociali, nei quali altre parti si incontrano, interdipendono, decidono insieme.
Abbiamo usato spesso la parola contropotere, usiamola quando la pratichiamo, riappropriamoci di Autonomia, e pensiamo i nostri spazi come Autonomia organizzata contro il capitalismo estrattivista.
Se potessi prefigurare uno sviluppo organizzativo dei municipi nel prossimo anno mi piacerebbe che si facesse un passaggio in avanti con tutte le interdipendenze verso uno spazio politico unitario di liberi Automomi nel post-umano.
Abbiamo costruito questi organi con tre anni di lavoro politico complessivo, dobbiamo esserne fieri e ringraziare tutte le compagne e i compagni che con generosità, abnegazione e creatività hanno contribuito a portarci fino a qua.
Nulla è per sempre, pensate a come abbiamo dovuto ricombinarci per adeguarci alla società pandemica: siamo entrati nel lockdown come spazi che si basavano sulla condivisione, sulla prossimità e sulla cooperazione e ci siamo trovati di fronte alla proibizione dei DPCM. Abbiamo letteralmente dovuto reinventarci, scoprendo un modo di adeguarci, senza snaturarci.
Se dovessi dare un bilancio direi che è assolutamente positivo, non abbiamo ceduto a regressioni politiche, stiamo crescendo ed oggi possiamo parlare del futuro.
Dicevamo del contesto politico. Certo vi era un Conte giallo/verde ed ora abbiamo un Drago di tutti, ma è questo il nostro campo di discussione oggi? Non solo e non tanto. Intorno a noi sono avvenuti cambiamenti epocali che non sono tendenze carsiche, ma processi in atto. Pensiamo alla sola digitalizzazione: essa è realtà, universale, generale, transgenerazionale.
Da vent’anni, almeno, siamo usi inaugurare le nostre assise con delle parafrasi che giocano con l’adagio non più/non ancora, intendendo con questo che il passato è percepito come appassito e senza futuro e il futuro incombe ma non ha presente. Abbiamo usato così tanto questo approccio che l’interregno è divenuto, ben aldilà delle intenzioni specifiche scientificamente fondate e temporalmente e spazialmente determinate del lavoro di Antonio Gramsci, un presente dominato da un tempo senza storia.
Può essere, senza dubbio. Il tema però è politico perché le conseguenze di questo approccio sono di due tipi, a mio parere. La prima è che ogni analisi del contesto politico è strettamente (irrimediabilmente!) dipendente dai trenta gloriosi, ovvero quella straordinaria ed unica finestra temporale tra gli anni ‘50 e ‘70 in cui la lotta di classe scrisse la storia, l’operaismo ebbe carattere egemonico nel laboratorio italiano, il fordismo negoziò un modello sociale che resse per decenni.
L’allora è un macigno che male spiega l’ora e, questo è l’oggetto di questo intervento, non predice le linee di sviluppo del futuro prossimo.
Il macigno – una pesante pietra quindi – è talmente inerziale che negli ultimi vent’anni abbiamo utilizzato il prefisso post per dire del nostro stallo, da qui post-fordismo, post-moderno, post- coloniale, eccetera.
Tutto è talmente post che non abbiamo più visto il tempo presente alla luce del suo futuro.
Se così è stato nelle parole, così è stato nelle pratiche, tant’è che ben poco è accaduto nel laboratorio Italia, poco in salute e in stallo tra l’eredità dell’innovativo ciclo no global e i movimenti assemblearisti, gli echi degli anticastisti, la trasversalità femminista, ambientalista. Processi ed effervescenze che abbiamo attraversato, giustamente, ma che non afferrano il bandolo della matassa.
Se ragioniamo di soggettività siamo troppo post-ritardo-per essere pre-anticipo; tant’è che “siamo andati a letto presto”.
Mi permetto una digressione sulla contraddizione ambientale. A me non convincono alcune cose che vengono dette da alcuni ecologisti, ad esempio il rimpianto per una Natura buona e genuina che l’Umano ha devastato e alla quale tornare come mito positivo. Non mi convince la positività in sé della Natura (vedere Voltaire sul terremoto di Lisbona o Leopardi che ricorda Silvia da chiuso morbo combattuta e vinta) e considero la fuga in campagna il peggio dei bobos.
Non vi è una Natura genuina, così come non vi è un Io genuino. Siamo ibrido, mixati, in relazione ontologicamente modificata (ROM). E la contraddizione ambientale va affrontata dentro la relazione di antagonismo irrisolvibile tra capitalismo finanziario e vita (Natura & Cultura): non si può fuggire, non ci si salva fuggendo nei casolari a coltivar patate, vendendole su Amazon. O i loro idrocarburi o la nostra vita, uno dei due.
C’è di che interrogarsi in profondità e oggi vogliamo dedicare tempo ed energia ad una riflessione condivisa sul presente e sulla luce che il futuro proietta su di noi. E vogliamo che il tempo sia un po’ meno chronos ed un po’ più aion.
Il mio intervento ha l’obiettivo di introdurre un dibattito, di invitare le compagne e i compagni che vi contribuiranno a ragionare su queste cose, senza l’arroganza di pensare di risolvere nulla nel breve termine, ma con la presunzione di essere qua per assaltare il cielo, anche lo spazio diremmo.
Entriamo nel merito. Non stiamo vivendo un tempo che è continuo rispetto al Novecento. Cominciamo a dire che il movimento no global ha chiuso il Novecento politico, almeno da noi. La stessa pensabilità della Rivoluzione è ipotecata.
Rivoluzione è una categoria astronomica, la più sovversiva fu quella di Niccolò Copernico, nel XVI secolo, che infatti ridusse la pretesa di essere la specie eletta di un sistema geocentrico, per un più ragionevole sistema eliocentrico.
Cosa vorrebbe dire ora Rivoluzione? E per/verso quale sistema?
Negli anni duemila è maturata una rottura epocale che ha prodotto tali e tanti cambiamenti che ci permettono di parlare di nuova Era, non di discontinuità di fase o di post-qualcosa. Una nuova Era geologica ha preso il campo, ponendo fine a quella dell’Homo sapiens.
I rapporti di produzione sono stati ristrutturati in una relazione globalmente ed universalmente dislocata che chiamiamo capitalismo finanziario, l’intera società vi è realmente sussunta. Leggiamo con cura Marx, ma non usiamolo come una clava teologica di verità rivelate a cui attingere per citazioni, non possiamo chiedergli di spiegare la produzione sociale corrente con le osservazioni del 1860. Non tagliamo la testa alla statua di Marx, ma non usiamo i suoi testi come teologia.
La composizione organica del capitale finanziario è mutata, è un ibrido cyborg che connette potenza macchinica e general intellect, in un dinamico cocktail tra gigantesca valorizzazione di lavoro astratto, energia vitale, risorsa animale e vegetale.
Il capitalismo finanziario è un sistema biologico complesso, composto di complessità, ibrido, umano, post umano, macchinico; il comando su di esso non può essere fatto da qualche oligarchia ad esso esterna o super partes, bensì intra ed inter partes.
Chi può comandare una tale complessità?
La sua accumulazione originaria siamo noi e le enclosures sono state già fatte, i pascoli comuni non ci sono più, il cyborg ha integrato piante ed umani, silicio ed idrocarburi, RNA e genoma ed ha ricombinato presente e futuro. Siamo noi le pecore nelle enclosures. Zoe è realmente sussunta.
Google e Facebook sono “una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di parassiti nella forma di escogitatori di progetti, di fondatori e di direttori che sono tali solo di nome; tutto un sistema di frodi e di imbrogli” (Marx). Le internet companies sono gli e-robber barons di questo secolo nuovo, i rentier della produzione sociale, accumulano ricchezze straordinarie appropriandosi del surplus che produciamo nell’interazione digitale sulle piattaforme, abbracciati al nostro partner di vita smartphone, in una sessione di ricerca on line. “Siamo diventati oggetti dai quali vengono estratte le materie prime (…) per le proprie fabbriche di previsioni” (Zuboff), come Ford trasformava acciaio in T-model, così Google si appropria della natura umana, sorvegliandola, per produrre le proprie merci, la più importante delle quali è la previsione dei comportamenti futuri. Nella sussunzione reale e digitale della vita al capitale la riproduzione sociale è del tutto strategica per i processi di accumulazione.
L’estrazione di plus-valore è possibile perché il gigantesco sviluppo della capacità produttiva è soggiogata in una relazione di sfruttamento. Non è possibile un capitale scisso dal lavoro, non possono vivere senza di noi; è possibile invece, purtroppo, una relazione estrattivista tra capitale e lavoro nella quale gli algoritmi sono lo strumento attuativo. Parafrasando Marx, “è produzione sociale senza il controllo della proprietà privata”.
Il capitalismo fonda mondi, organizza la società in modo nuovo, è potestas ma anche potentia. I movimenti di capitale lo fecero cambiando le campagne inglesi come ci raccontarono i Levellers, colorando di grigio il cielo di Londra osservato da Dickens, dando un’auto uguale e diversa a tutti, organizzando il territorio come una fabbrica diffusa. Ora il capitalismo produce il nostro futuro archiviando i dati del nostro presente, in un circuito di valorizzazione non vincolato da limiti spaziali o da poteri statuali.
Gli e-robber barons sono in una situazione analoga a quella vissuta nell’era della corsa all’oro, operano in una sostanziale assenza di leggi, nel deficit delle lotte del general intellect; non ci sorprenderebbe se nello shock della gestione emergenziale dell’endemia del coronavirus, colpo definitivo al liberalismo democratico, fossero le stesse piattaforme digitali ad occupare il ruolo della gestione della democrazia e della libertà, mettendo al servizio delle governance statuali la loro enorme capacità di calcolo e di conoscenza dei comportamenti individuali.
E’ un salto di Era geologica, non siamo nella post-modernità, ma oltre l’umano. Siamo immersi in un mondo che è in tumultuosa rivoluzione, da ogni punto di vista: delle contraddizioni ricco e povero, della relazione tra Natura e Cultura, della dialettica sessuata tra Donna ed Uomo, della divisione internazionale del lavoro e del diritto, le cui fonti ora sono del tutto originali. Ci basti pensare che la carta d’identità più riconosciuta e reputata è il profilo Facebook, che è il più universale spazio pubblico del mondo, non statale e di diritto privato.
Non sono cambiamenti sovrastrutturali, bensì strutturali. E riguardano tutto. Per questo ci serve un lavoro di ricerca, o meglio di con-ricerca con altre ed altri, interessati alla costruzione di una praxis e di un pensiero di cambiamento radicale.
Il lavoro di ricerca dovrà essere multidisciplinare, con tanti scienziati, senza paura di fare errori e senza temere il caos, amando la lisergica visionarietà. Sogno che nei prossimi cortei avremo un nostro esercito di droni cyborg coordinati per via neurale.
Vado a concludere, solo nominando il gigantesco problema dell’efficacia del conflitto.
Non possiamo continuare a riattualizzare vecchie tecniche e vecchie pratiche, esse sono ormai inefficaci e puzzano di retorica, di autorappresentazione. Nell’Era del capitalismo finanziario le lotte contano se fanno male al potere. E fanno bene a noi.
Dobbiamo collegare il conflitto alle nuove forme di capitalismo, porci il problema dell’efficacia della lotta. Ed usare tutti i linguaggi, i saperi e le tecnologie che sono disponibili.
Alcuni compagni scrivono della nuova centralità del sabotaggio ambientalista per il cambiamento radicale, invitano a fare male a chi fa male e a chi gode parassitariamente dei benefici del male. Stiamo parlando della non possibile coesistenza con il capitalismo estrattivista, e questo guida ad un nuovo radicalismo.
Stiamo parlando dell’arrivo degli Jedi.