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MAI PIU’ CPR – NE’ QUI NE’ ALTROVE

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I CPR (Centri di Permanenza per i Rimpatri) sono luoghi in cui le persone vengono trattenute e private della loro libertà, pur non avendo commesso reati. L’accusa è quella non di essere “veri rifugiati”, degni del riconoscimento della protezione internazionale, ma semplici “migranti economici”, da rimpatriare il più velocemente possibile. Una ormai nota strategia che, seguendo parametri sempre mutevoli, suddivide e seleziona le persone in movimento verso l’Europa, senza riconoscere le crisi sistemiche che picchiano più forte a determinate latitudini: crisi economiche e inflazione aggravatesi tra Covid e guerra, crisi politiche che alimentano colpi di stato e governi sempre più autoritari, o la crisi climatica che determina un aumento incessante di desertificazione e cataclismi naturali.

I CPR rafforzano nei nostri territori il modello di segregazione euro-libico. Centri in cui vengono reiterati abusi fisici e psicologici, in cui le persone vengono rinchiuse e spesso sedate con psicofarmaci come forma di controllo e in cui il tasso di suicidi è sempre più alto. Le narrazioni che legittimano questo modello detentivo sono in continuità con un’ideologia suprematista e securitaria che viene utilizzata dal governo Meloni per distrarre l’opinione pubblica dai reali problemi economici e sociali derivanti dall’aumento dal caro vita, dai salari fermi e dalla recessione alle porte. Ideologie che rappresentano le persone migranti come merce da sfruttare (e di cui il governo non può fare a meno, come dimostra il decreto flussi approvato a inizio luglio che prevede 452mila permessi in tre anni) o come pericolosi delinquenti da espellere.

Il modello dei CPR, inoltre, si fonda e alimenta la stipula di accordi con stati terzi definiti sicuri, come il Memorandum d’intesa siglato il 16 Luglio 2023 tra Europa e Tunisia e facilitato dal governo italiano, che prova a riprodurre il modello del Memorandum Italia-Libia, o altri patti di riammissione e rimpatrio con paesi come Nigeria, Gambia, Costa d’Avorio e Senegal. Tali accordi sono spesso sottoscritti con realtà criminali, più o meno istituzionali, andando quindi ad alimentare i sistemi di potere in mano ai clan e alle élite militari e i conflitti e le disuguaglianze interne ai paesi. Inoltre, rendono sempre più difficile il viaggio, senza riuscire tuttavia a dissuaderlo, costringendo le persone a perseguire vie di fuga sempre più pericolose attraverso il deserto, il mare, il traffico, lo sfruttamento e la violenza.

Come da anni è ormai chiaro, questo è un problema politico complesso che richiederebbe prospettive lungimiranti e a lungo termine, e non sempre e solo emergenziali. Riprodurre strutture di accoglienza detentive e violente nei territori europei non farà che incrementare il conflitto sociale senza riuscire a reprimerlo, come le migliaia di arrivi giornalieri sull’isola di Lampedusa di quest’estate ci dimostrano. Le persone non smetteranno di mettersi in viaggio e un sistema di rimpatrio sistematico non è economicamente ed eticamente sostenibile, né per l’Italia né per l’Europa. Al contrario, quindi, bisognerebbe costruire infrastrutture a sostegno della vita e dei desideri di queste persone, piuttosto che delle frontiere, in mare come in terra, alimentando forme di accoglienza diffusa e di un abitare degno e stabile, processi di inserimento sociale e lavorativo equi, e il diritto – oltre che di muoversi e di restare – di ritornare, per lottare anche nei paesi d’origine per una società più giusta.  

Da mesi il governo di Roma sta attaccando la città di Bologna, non solo l’amministrazione ma anche la rete di realtà e associazioni attive sul territorio. Questi attacchi mirano a destabilizzare la coesione sociale della città, utilizzando, come sempre fa la destra, le persone con un passato migratorio come capro espiatorio. Con queste righe vogliamo rispondere ai vari Lisei, al Questore e agli altri attori di questo governo. Lo diciamo forti delle lotte passate che hanno portato alla chiusura del CIE di via Mattei; lo diciamo con la forza e l’amore per la libertà riportata qualche settimana fa nei nostri spazi da Patrick Zaki finalmente libero dopo una lunga prigionia in Egitto; lo facciamo certi della base sociale, dei movimenti, delle associazioni della Bologna degna e solidale che non sta a guardare: i CPR devono chiudere.

Il CPR a Bologna non si deve dare e se il Governo ci proverà sarà conflitto aperto con noi e con la città.