Al momento stai visualizzando Oltre la democrazia liberale: roghi urbani e conflitto interno permanente

Oltre la democrazia liberale: roghi urbani e conflitto interno permanente

Los Angeles brucia ancora ma questa volta è fuoco amico. 

Nel cuore della megalopoli di Los Angeles, tra grattacieli e vetrine illuminate sono scoppiate le proteste contro le politiche di remigration attuate in retate di migranti da parte dell’ ICE. L’United States Immigration and Customs Enforcement è entrata con blitz nelle case e nei luoghi di lavoro, per prelevare e deportare persone che da anni vivevano e lavoravano nel territorio. Un processo di espulsione violento in un paese che è stato fatto grande dai migranti come recitano alcuni cartelli durante le proteste.

Pneumatici squarciati, vetri spaccati, auto della polizia prese a sassate, presi d’assalto e dati alle fiamme i mezzi di Waymo, i robotaxi dell’azienda a guida autonoma di Google. Atti contro le politiche di remigration e le deportazioni e non contro la tecnologia, come qualcuno ha provato a sostenere, ma anche parte di proteste più ampie legate a temi come la sorveglianza statale, la gentrificazione, la militarizzazione della polizia e contro ciò che effettivamente i waymo sono: un occhio governativo mobile che filma tutto e tutti, 24/7, in quartieri già sorvegliati in modo sproporzionato.

Si rafforza così il conflitto interno tra Stato e cittadinx con leggi speciali per reprimere il dissenso con il rafforzamento di nuove tecnologie (sorveglianza, IA, armi) che diventano strumenti di controllo.


Negli ultimi anni, molti Stati US hanno approvato leggi che criminalizzano le proteste, in particolare dopo Black Lives Matter (2020) e le proteste ambientali permettendo alla polizia di arrestare preventivamente chiunque partecipi a manifestazioni considerate “potenzialmente violente”, aumentando le pene per chi blocca strade o attacca infrastrutture (es. sedi aziendali o auto a guida autonoma), addirittura leggi volte a proteggere automobilisti che investono manifestanti. Le proteste vengono sorvegliate con droni, riconoscimento facciale, tracciamento dei telefoni. L’altro strumento di repressione è l’intervento dell’esercito e il coprifuoco, proprio come sta accadendo ora a Los Angeles. 

Ma la repressione non è solo poliziesca: è culturale, economica, mediatica. Si rafforza attraverso la colonizzazione algoritmica del pensiero, la neutralizzazione delle soggettività collettive, la riduzione della politica a gestione tecnica. In questa epoca post-umana, in cui i confini tra biologico e digitale, tra corpo e rete, tra umano e dispositivo si fanno sempre più sfumati, la democrazia liberale si rivela per quello che è diventata: una facciata vuota, un contenitore senza contenuto, non più utile a mascherare la crescente forza e arroganza del comando finanziario, delle nuove oligarchie, in US come in Arabia Saudita, in Europa come in Cina.

Le proteste, dex migranti ma sempre più intersezionali, avranno carattere costituente di rifondazione democratica?

Le mobilitazioni dei cittadini che protestano in US  sono fatte per continuare a essere statunitensi. Non a caso accanto alle bandiere culturali dei paesi di provenienza ci sono bandiere US a difesa della dichiarazione di indipendenza del 04 luglio e dei suoi valori, sempre più lontani dopo l’assalto dei trumpiani a Capitol Hill e il conseguente secondo mandato.  

Anche le istituzioni locali si sono mosse in tal senso, innescando un acceso conflitto tra l’amministrazione federale di Donald Trump e il governo statale della California. Questo scontro rappresenta una delle più importanti fratture tra governo federale e Stato nella storia recente degli Stati Uniti, con implicazioni significative. Alcune voci riportano che la sindaca di Los Angeles abbia dato mandato alla polizia statale di difendere le scuole dall’eventuale ingresso dell’ICE per prelevare irregolari. 

In questo contesto di repressione crescente il conflitto non è soltanto un gesto di rabbia: è un atto che squarcia il velo dell’apparenza democratica, rivelando le tensioni profonde che abitano le nostre società. Dietro il fumo di quelle carcasse consumate dal fuoco delle auto non c’è il vuoto del nichilismo, ma il segno di una nuova politicità che prende forma anche nei margini ed emarginatx dal comando finanziario. È il sintomo di un’epoca che si è già lasciata alle spalle l’orizzonte della democrazia liberale, un copione che, chi governa, ormai non tenta nemmeno più di recitare. Siamo, a tutti gli effetti, nell’era dell’oltre-democrazia, in cui le forme della rappresentanza sopravvivono senza più il contenuto, le forme di welfare anche base non sono più garantite e in cui il conflitto sociale viene gestito come una questione di ordine pubblico e mai come una domanda di giustizia.

Così il gesto incendiario – per quanto scomodo o difficilmente digeribile dalle coscienze pacificate – si configura come un atto di riappropriazione, un’espressione materiale della volontà di riscrivere le regole della convivenza. È una miccia simbolica che denuncia con chiarezza: la tecnologia, il progresso, le risorse non possono più essere ostaggio di una minoranza protetta dalle leggi e dagli scudi finanziari. Non è un attacco al futuro, ma la sua rivendicazione.

Anche la legislazione italiana in materia di migrazione e ordine pubblico è un esempio lampante del cambio di fase: il cosiddetto “Decreto Sicurezza”, oggi pienamente operativo come legge, ha introdotto dispositivi repressivi che criminalizzano la protesta, inaspriscono pene per manifestazioni pacifiche e autorizzano una sorveglianza sempre più invasiva e selettiva aprendo la strada al rafforzamento dei rimpatri. Tutto questo avviene in nome di una “sicurezza” che non protegge la cittadinanza, ma la rende docile. È il volto contemporaneo di una guerra civile a bassa intensità, dove il nemico non è più esterno, ma interno: lx studentx, lx lavoratrice precarix, lx migrante, lx militante ecologista. Chiunque si opponga al dispositivo neoliberale diventa un bersaglio da neutralizzare, non da ascoltare.

Anche le politiche migratorie stanno quindi  diventando sempre più restrittive (accordi con Albania, aumento dei rimpatri, criminalizzazione delle ONG) in un quadro europeo regressivo che porterà alla prossima entrata in vigore del ‘patto sulla migrazione e l’asilo’. Su questo attivistx, reti di giuristx e retx di movimento stanno costruendo fronti di resistenza è sempre più dovranno creare reti larghe. Come Municipi Sociali, con diverse realtà territoriali, abbiamo fondato il ‘network against migrant detention’ che ci ha visti mobilitarci davanti ai CPR in Albania con realtà del territorio in un’alleanza oltre confine. I corpi che si ribellano continuano ad avere potere decisionale e possono scrivere anch’essx la storia. Ma la domanda è come in Europa la grande spinta all’accoglienza e il meticciato costante del continente non scompaiano schiacciati dal loro stesso elemento ideologico su cui ormai si perdono le elezioni ma si trasformi in forza e contrattacco nella guerra civile.

Nei territori più oppressi – ma anche in laboratori urbani, municipalisti e nei movimenti transnazionali – si rafforza, e si dovrà rafforzare sempre più, una democrazia conflittuale. Una democrazia che non solo delega, ma prende spazio e costruisce nuovi rapporti di forza anche immaginando nuove forme partecipative tra governo e autogoverno. 

Non possiamo essere noi a difendere il passato, in un’ottica conservatrice, lasciando la rivoluzione a chi propone apertamente e pianifica le deportazioni forzate. Dobbiamo immaginarci il domani, avere un sogno condiviso per cui lottare, un mondo in cui vale la pena vivere, così come recitavano le tante scritte sui muri del Chile durante l’estallido social: ‘hasta que valga la pena vivir’.

È tempo di riconoscere che il conflitto è la nuova forma della cittadinanza e della democrazia e che, se bruciare un’auto può sembrare un gesto eccessivo, molto più grave è l’incendio sistemico che consuma ogni giorno diritti, risorse, dignità, che brucia gli spazi delle nostre vite.

Non saremo spettatori del declino ma protagonisti e costruttori del futuro che sogniamo.