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Settimo scaffale – Dou you remember Afghanistan?

Nel tempo dell’oltreumano la dimensione di guerra civile globale avviluppa tutte le latitudini e l’oltre democrazia è lo scenario da cui non si torna indietro. 

La democrazia spacciata come orizzonte planetario ha accompagnato la fase, ormai finita, della globalizzazione a guida americana ma se dalla globalizzazione non si torna indietro ed è il campo d’azione dell’algoritmo del capitalismo finanziario, tutto il resto per ora è in movimento. 

L’oltre democrazia non è uno scenario definito nella sua forma, contiene sovranismi di ogni tipo moderni ed arcaici, ibridati. Le regole del gioco che conoscevamo non valgono più. Chi pigia i bottoni ai vertici si muove in una scacchiera che muta con la velocità dell’IA, dei dati quantistici e dagli sviluppi imprevedibili. 

Sottosistemi statali, privati, corporation e caste si combattono, si alleano, divorziano e si rimettono insieme, in una girandola vorticosa di tentativi, stop and go continui. Ognuno gioca per sé nelle molte facce del XXX First.

L’oltre democrazia nel suo avanzare semina percorsi diversi. 

Nell’America di Trump l’oltre democrazia schiera le truppe a Los Angeles per combattere contro chi gli resiste in nome dei valori fondanti a stelle e strisce. 

Nella Cina di Xi Jng Ping e dell’inossidabile, per ora, PCC l’oltre democrazia è un continuum 2.0 con il sistema che è riuscito a riportare circa un miliardo e mezzo di cinesi al centro di “tutto ciò che è sotto il cielo”. 

L’oltre democrazia in Europa assume le forme di autoritarismi, cupi sovranismi che cercano di spazzare via ogni meccanismo formale di check and balance, di garanzie e diritti, a cui si tratta di resistere per noi che ci viviamo con la consapevolezza che uno scenario radicalmente alternativo è tutto da costruire. 

L’oltre democrazia corre tra Erdogan, Putin, Netanyahu, Modi, ayatollah, sceicchi e una pletora di “pezzi di m … “ di cui a fatica conosciamo i nomi. 

Perchè in questo scenario, in cui ogni giorno ce n’è una di nuova, tornare in Afghanistan? 

Una sorta di “dovere” nei confronti soprattutto di quelle donne cancellate dal burqa? Ci sta. 

Una sana curiosità per capire cosa sta succedendo in un posto che per un lampo è apparso nei nostri riflettori? Ci sta. 

La tendenza a non archiviare i nomi dei luoghi quando spariscono dai radar? Ci sta. 

Tanti motivi ci riportano tra quelle remote montagne che sono state in prima linea nel tempo della guerra fredda, nei momenti drammatici del propagarsi contraddittorio della globalizzazione e delle devastazioni dell’avanzare dell’oltre democrazia, con l’immagine degli aerei che lasciano la pista dell’aereoporto di Kabul mentre i Talebani tornano al potere nel caldo agosto 2021. 

Perciò abbiamo pensato di arricchire la nostra biblioteca con un ripiano dedicato al remoto Afghanistan. 

Abbiamo fatto una lunga chiaccherata con Barbara Schiavulli, giornalista indipendente di Radio Bullets https://www.radiobullets.com/ che di quel remoto paese ne sa parecchio. 

Barbara è autrice di “Burqa queen” https://store.youcanprint.it/burqa-queen/b/e5d20435-540c-511a-b27e-9d2bb440c941 un volume che ci tuffa nell’Afghanistan di oggi. 


INTERVISTA CON BARBARA SCHIAVULLI

Come è nata la tua passione per l’Afghanistan?

Fin da quando ero bambina avevo una passione: fare l’inviata in zone di guerra. Da giovane ho vissuto a Gerusalemme, poi sono tornata in Italia perché non volevo seguire solo il conflitto israelo-palestinese.  Nel 2001 scoppia il conflitto a senso unico fatto dagli Stati Uniti contro l’Afghanistan. Con la caduta delle Torri gemelle mi ritrovo in Pakistan con altri 800 giornalisti da tutto il mondo in attesa di poter entrare nel paese. Entro così per la prima volta in Afghanistan. Da quel momento in poi, insieme ad altre crisi che ho seguito come l’Iraq, sempre Israele e Palestina, il Libano, l’Iran, continuo ad andarci. 

L’Afghanistan è un paese straordinario che ho raccontato per 24 anni e dove ho continuato ad andare anche dopo la caduta del governo e l’arrivo dei talebani. Perché? Un po’ perché gli afghani, che chiamo i cubani del Medioriente e del Centrasia, sono veramente simpatici e ospitali nonostante 50 anni di guerra. Dico 50 anni perché noi abbiamo raccontato solo l’ultima guerra che ci vedeva coinvolti, ma in realtà il paese ha attraversato tante guerre, durate tanti anni. L’età della popolazione è molto bassa e c’è gente che ha vissuto tutta la vita in guerra. 

L’altro motivo che mi porta in Afghanistan è che piano piano mi sono affezionata alle storie. Quando giri il paese, fermi una persona, gli chiedi la sua storia, ti racconta un libro. Avviene anche in altri paesi, ma lì è come se questa tensione fosse più potente. Per una collezionista di storie, come sono, questo era una fonte inesauribile che si accompagna alla bellezza del posto. La difficoltà del lavoro è stata un’altra sfida che ho voluto affrontare. Non eravamo tanti ad andarci, se non quelli che seguivano le truppe. Sul territorio vero in mezzo alla gente non siamo mai stati tantissimi. Si poteva raccontare qualcosa di meno narrato rispetto ad altri conflitti, penso a quello israelo-palestinese, dove sono passati un po’ tutti, anche se molti che ci sono andati si può dire che possono averlo raccontato anche malamente.

Durante i viaggi in Afghanistan è successa la cosa che mi ha cambiato come giornalista. Prima avevo sempre scritto come giornalista indipendente per il mainstream, per grossi giornali come la Repubblica, Espresso, La Stampa, Avvenire. Piano piano ho iniziato a scostarmi da quello che mi chiedevano, cioè le classiche interviste ai militari o al presidente, che peraltro avevo fatto, come la prima intervista al Generale Petreus capo di tutte le forze armate occidentali o al presidente afghano appeno insediato. E’ come se mi fosse apparso evidente – forse lo è sempre stato ma in Afghanistan ancora di più – che la guerra era il fallimento della politica e non poteva essere raccontata solo dalla parte di chi la faceva, la dichiarava, la orchestrava -quindi politici e militari- ma per far capire cos’era veramente bisognava raccontare le persone che la subivano. Questa narrazione mancava. 

Una parte della popolazione era del tutto inascoltata perché era difficile avere accesso alle donne. La maggior parte dei colleghi sono maschi e un maschio che intervista una donna in Afghanistan non ottiene le risposte vere perché le donne rispondono come si aspettano che un maschio vorrebbe ascoltare. 

Per muoverci usiamo giornalisti locali come fixer, maschi, ovviamente. Io ho lasciato il fixer maschio preferendo una donna. Quando l’ho fatto ho cominciato ad avere tutta un’altra narrazione, molto più interessante. Ho continuato così e uno dei miei punti di forza è proprio poter riuscire a raccontare le donne afghane, i loro cambiamenti in questi venti anni e la loro situazione attuale.  

Descrivi gli afghani come un popolo solare, ma i Talebani sono al potere, affondano le loro radici dentro la popolazione. Come spieghi il contrasto tra la solarità degli afghani e la cupezza strutturale dei Talebani? 

I Talebani sono una costruzione, non esistono da sempre. 

Dopo l’invasione russa lungo il confine con il Pakistan venivano presi bambini e ragazzi orfani, oppure venivano comprati alle famiglie povere per poi essere inseriti nelle madrase, in teoria scuole coraniche, ma in pratica veri e propri campi d’addestramento, un po’ come i bambini soldati in Africa. Sono stati manipolati. In origine erano essenzialmente di etnia Pashtun, anche se adesso questa cosa sta un po’ cambiando. All’inizio dovevano combattere contro i russi, finanziati da Pakistan, Arabia Saudita e Occidente; poi si sono ritrovati al potere negli anni novanta. Dobbiamo tener ben presente che quello che si insegna ad un ragazzino, per lui diventa la verità. Se ci fermiamo a riflettere vale anche per noi: le cose che ci vengono insegnate da piccoli diventano le nostre idee. A loro veniva insegnato che le donne erano il male, che la cultura era una distrazione, che quello che era bello nella vita era male. Vale questo per i Talebani. Per gli afghani invece vale un’altra storia. Sono una comunità gioiosa. Nonostante la guerra, piace loro fare cene, stare in compagnia. I matrimoni erano enormi, c’era la musica, i concerti, gli attori. In questi ultimi vent’anni, nonostante la situazione di guerra, tutto questo è aumentato. E’ tornata parte della diaspora. C’era un governo che, per quanto corrotto e con tante difficoltà, qualche atto, qualche legge la implementava. C’erano tante persone soprattutto tante donne che ci hanno creduto. Artiste e ragazze che andavano sullo skateboard, si buttavano col deltaplano scortate dalla polizia. Credevano – e anche noi glielo abbiamo detto – che fosse tutto possibile. In vent’anni sono cresciute e l’accordo che ha fatto Trump ha cancellato tutto quello che è stato fatto.

Posti poco conosciuti arrivano alla nostra attenzione solo per determinate contingenze e poi spariscono dai radar. Finché sono nel mirino informativo tutti si spacciano come esperti, ma ben poche volte si va oltre le banalità. Nel caso dell’Afghanistan libri come “Il grande gioco di Hopkin” ti fanno capire che siamo di fronte a luoghi dove è passata la Storia. C’è la percezione del proprio passato per gli afghani?

Nel 2001 quando siamo arrivati il tasso di analfabetismo era del 95 per cento delle donne e del 75 per gli uomini. Quando parlavi di Torri gemelle pensavano che fossero a Kabul perché era l’unica città grande che conoscevano. Anche nelle campagne però loro stessi ti dicevano – e ti dicono – che si parlava di Afghanistan già dai tempo di Alessandro Magno. Essendo in una posizione centrale tra Cina, Europa e Nord della Russia e, ancor più sotto, sulla via per lo sbocco sul mare, ha fatto sempre gola a tutti. Negli anni settanta ci sono passati gli hippie oltre che tutte le forze internazionali. Commerci, religioni, tutto lo ha attraversato. Senza contare che sotto terra ci sono risorse importanti, giacimenti da sfruttare come litio, gas e acqua perché ha montagne altissime. E’ la storia di tutti i paesi in guerra: quello che interessa non sono le persone, ma quello che c’è sotto terra. L’Afghanistan rientra esattamente nello schema. 

La sua storia è fatta di personaggi incredibili che purtroppo noi non conosciamo, ma l’afghano spesso ti dice “non ci ha mai conquistato nessuno” neanche Alessandro Magno che fu ferito nella zona di Kandahar e poi morì più avanti per quelle ferite. Ci sono passati gli inglesi che hanno definito il confine tra Pakistan e Afghanistan. C’è passato veramente tutto. C’è stata musica, storia, filosofia in momenti pre-islamici. Penso ai giganteschi Buddha che vennero distrutti nel 2001 dai Talebani che già cominciavano a far vedere il loro odio verso la cultura. Gli afghani possono anche essere ignoranti o non alfabetizzati, però la predisposizione verso la cultura l’ho sempre vista. 

Sono soprattutto gli artisti che stanno soffrendo insieme alle donne in questo momento perché hanno dovuto seppellire i loro strumenti musicali, interrare le opere d’arte per salvarle, fatto che oggi nel 2025 sembra una cosa inaudita. 

Sapere anche se solo vagamente che l’Afghanistan ha avuto una storia complessa, collegata a vicende regionali ed internazionali, è importante per non dare spiegazioni semplicistiche al fatto che proprio tra quelle montagne si sono incistati i Talebani. Venendo all’oggi cosa hai visto di diverso tra il 2001 e il 2021 quando sono tornati al potere?

Ci sono zone molto remote. E’ un paese per la maggior parte montuoso dove non ci sono ancora elettricità e l’acqua corrente e ci sono sistemi di irrigazione ancora antichi. Ma se si pensa alle grosse città Kabul, la capitale, Herat, patrimonio storico universale, Mazar Sharif, città bellissima, e anche Kandahar, roccaforte dei Talebani, le cose si sono evolute. Si gira con gli smartphone. Nel 2001 firmavano con la croce adesso firmano con nome e cognome. Si sono abituati ad avere l’idea di uno stato mentre all’inizio non sapevano neanche cosa fosse un sindaco, cosa fosse un governatore. Hanno fatto progressi alla velocità della luce se si pensa che noi ci abbiamo messo centinaia di anni per arrivare a un certo punto e loro in vent’anni, per quanto tutto fosse fragile, hanno fatto proprie alcune cose. La colpa maggiore è che tutto quello che loro hanno guadagnato in questi vent’anni siamo stati noi a toglierglielo.

Fermiamoci su un punto che riguarda passato e presente: la questione dell’oppio e del narcotraffico. Come per l’America Latina il destino è segnato dalla produzione di cocaina, la cui vendita è sempre in crescita, così la storia dell’Afghanistan è legata alla coltivazione dell’oppio. I Talebani hanno formalmente vietato le coltivazioni e oggi usano la distruzione dei campi di papavero come merce di scambio con le organizzazioni internazionali. Cosa sta succedendo?

L’oppio è stata sempre una risorsa fondamentale perché c’è sempre stata una grande richiesta. L’Afghanistan è un posto montuoso dove il papavero cresce fiorente. I contadini come al solito non ci hanno guadagnato molto. Poteva essere una qualsiasi coltivazione, ma l’oppio era quello che funzionava di più perché c’era la garanzia che il prodotto veniva comprato. 

Con l’arrivo dei Talebani sia nel primo regime – che lo ha formalmente vietato – sia in questo, la vendita è caduta, creando difficoltà a tutti quelli che campavano con questa coltivazione. Questo è il motivo per il quale sia le Nazioni Unite che la Nato hanno fatto di tutto per non distruggere le coltivazioni, non volevano il sollevamento della popolazione. Di fatto l’oppio rappresentava almeno la metà del budget economico del governo afgano tant’è vero che il fratello del primo presidente Karzai era un notissimo narcotrafficante, al soldo della CIA peraltro. Con i talebani che si ritengono più onesti e puri è tutto da vedere, in teoria la coltivazione è stata fermata facendo diventare il Myanmar, che pure è in condizioni instabili, il maggiore produttore di oppio e di conseguenza di eroina. 

L’Afghanistan pare stia sviluppando un traffico di sostanze sintetiche perché comunque qualcosa devono fare. Essendo aumentato il traffico di esseri umani e di organi, con molte persone che cercano di scappare dal paese, ci sono già tutte le rotte per poter far passare merci illegali. Resta un grosso problema però per tanto tempo è stato una delle risorse economiche più importanti per la popolazione e anche per il governo.

L’Afghanistan vive una profonda crisi economica, la popolazione vive in condizioni di povertà assoluta. Cosa è accaduto?

Adesso che i Talebani hanno dato in gestione le miniere ai cinesi, che hanno i russi che si stanno arricchendo costruendo le strade, riescono a gestire la loro stessa esistenza, ma non il paese dove il 97% della popolazione è al di sotto della soglia di povertà. Gli americani danno ancora 40 milioni di aiuti a settimana che però la popolazione non vede nemmeno, perché entrano nelle casse dei Talebani e lì restano. E’ vero che gli americani andando via si sono tenuti 7 miliardi di quello che era nelle banche internazionali e apparteneva al governo afghano, ma è vero che i Talebani hanno trovato due, tre paesi oltre a quelli confinanti che comunque fanno affari con loro nonostante l’embargo, le sanzioni, l’isolamento internazionale. 

La popolazione afghana, soprattutto le donne, ti dice “non fate nessun accordo coi talebani”. Purtroppo so di colloqui che vengono fatti tra i diplomatici italiani e i Talebani, che ovviamente non vengono pubblicizzati in Italia, però sono i Talebani stessi che li pubblicizzano a casa loro.

Il grosso della crisi economica è dovuto al fatto che metà della popolazione, le donne, è blindata in casa, non lavora più. Le donne avevano ripreso a lavorare, le famiglie ormai erano consenzienti, avevano capito che se una donna lavora porta soldi a casa, le vedove, che non avevano un uomo in famiglia, lavoravano. C’erano centinaia se non migliaia di progetti per l’emancipazione delle donne, piccole imprese, negozi, ristoranti nelle grandi città. Il fatto di bloccare metà della popolazione, impedirle di lavorare sicuramente ha dato un duro colpo all’economia. 

L’altro problema sono le competenze. I Talebani hanno fatto solo guerra. Nel momento in cui hanno preso il potere hanno messo tutti i combattenti a capo di qualunque cosa, che fosse un ospedale, a fare il sindaco, il governatore. Non avevano esperienza, non sapevano come gestire una città, un ospedale o una scuola per maschi. E’ stato un fattore determinante. Hanno capito poi che dovevano mettere in posti apicali Talebani che avevano studiato quindi sono state prese persone molto giovani, soprattutto ingegneri che avevano studiato chi in India, chi in Qatar, dove peraltro c’è una parte della dirigenza talebana, quella che ha partecipato ai colloqui. In Qatar c’è un ufficio dei Talebani e le loro figlie vanno a scuola, cosa che invece è vietata alle altre afghane. 

Il loro obiettivo è non mandare nessuna donna a scuola perché se una madre è ignorante di certo non può allevare figli troppo smart o con un pensiero critico. Ne blocchi una per bloccarli tutti. Tutti i programmi delle scuole maschili sono stati cambiati e quindi non è che crescono nemmeno maschi con grandi idee. L’obiettivo è il controllo: più una persona è ignorante più è facile da manipolare. Il direttore della Commissione cultura del governo quando l’ho incontrato e gli ho chiesto il perché alle donne è vietato andare a scuola, che problema avessero, mi ha risposto “voi europei quanto la fate lunga, non vedete dove siamo arrivati noi senza andare a scuola”. Con le armi puoi arrivare ovunque. 

La crisi economica è legata a quella sanità: se non c’è gestione di niente non ci sono soldi per nulla. Le donne non hanno accesso a medici uomini e se le donne non vanno a scuola tra un po’ non ci saranno più dottoresse donne quindi, si tornerà a partorire completamente in casa nelle mani di chissà chi. Sono state di nuovo sdoganate pratiche che erano sparite. 

Sanità, economia, istruzione sono tutti elementi fondamentali, basilari della vita di un essere umano. In Afghanistan per le donne questi diritti essenziali sono stati cancellati. Non è che gli uomini vivano bene accanto a donne disperate. Oggi le diciasettenni che andavano a scuola, le ragazze ventenni che stavano per andare all’università, le giovani che fino al 2021 facevano l’università sono disperate. Mi arrivano messaggi che dicono “io mi dò fuoco, perché sono disperata”. 

Ad una ragazza viene tolta ogni speranza, cancellati i sogni e le si dice dirle che l’unica cosa che può fare è sposarsi. Con la chiusura delle scuole i genitori dicono alle bambine di sposarsi a 12 anni. Le elementari e le medie le possono ancora fare, per come le fanno là, dopo le fanno sposare perché cosa fai? Le tieni a casa a piangere? Sposate almeno fanno figli che è esattamente lo scopo dei Talebani. E’ il patriarcato 2.0 allo stato puro. 

Certo in altri paesi lo vedi in tante altre forme più sofisticate ma in Afghanistan vedi veramente l’espressione più fiorita del peggio di quello che possono inventarsi gli uomini e quando dico gli uomini dico maschi.

Il libro “Fuorché il silenzio. Trentasei voci di donne afghane”  https://www.ibs.it/fuorche-silenzio-trentasei-voci-di-libro-vari/e/9791256220359?queryId=dc6453a098e4c76f709fa9458226bfbc contiene 36 racconti di donne afghane, attiviste per i diritti civili che, al ritorno dei Talebani nell’agosto 2021, hanno intrapreso proteste e manifestazioni. Zainab Entezar – regista e scrittrice – ha raccolto le testimonianze e Asef Soltanzadeh – scrittore afghano emigrato in Iran e ora residente in Danimarca – ne ha curato l’edizione e la stampa mentre Daniela Meneghini – docente di Lingua e letteratura persiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia – coadiuvata da alcuni collaboratori, ne ha curato la prima traduzione in una lingua europea. Scorrendo i racconti si ha modo di conoscere i tentativi coraggiosissimi che hanno fatto le donne per protestare: tirar fuori un cartellino con scritto qualcosa sui diritti femminili diventa un’operazione da organizzare con tutti i crismi della clandestinità, per poter restare in contatto si usano i metodi più segreti per non incappare nella repressione, bisogna cambiare sempre casa per sfuggire ai controlli e cercare di preservare la propria famiglia. I racconti coprono i primi due/tre anni circa dal 2021. Ora nel 2025 qual è la situazione?

La repressione è addirittura aumentata. Tutto è clandestino. Le donne sono in costante contatto con altre donne, magari all’estero. C’è la scuola clandestina, la sanità clandestina. Continuano a studiare perché internet funziona e questo per fortuna è proprio un dono.

Andando a fare degli incontri pubblici su quel che accade in Afghanistan con Radio Bullet https://www.radiobullets.com/, la testata giornalistica che dirigo, parlando con un paio di realtà della zona di Frascati ci hanno detto ma “perché non paghiamo noi una ragazza per fare la corrispondente per voi”. Con il loro appoggio una donna giornalista in Afghanistan che non poteva più lavorare oggi scrive per Radio Bullet. Siamo i soli in Italia che facciamo questa cosa. Lo stipendio medio in Afghanistan è di 100 euro al mese. Le associazioni che ci appoggiano ci danno 100 euro al mese per un anno per pagare una giornalista che anonimamente, altrimenti verrebbe arrestata, scrive per noi.

La gioia e la commozione che ho visto negli occhi pieni di lacrime – con le sue lunghe ciglia finte – quando le ho detto di scrivere per noi e che l’avremmo pagata ( con questi soldi avrebbe potuto mantenere otto persone della sua famiglia) è stata un’emozione fortissima. Se anche avessi fatto solo questo nella mia vita sarei già contenta. 

A proposito di ciglie finte: adesso le afghane, soprattutto le ragazze, devono vestirsi soprattutto in nero, cosa che prima non avveniva. Spesso sono velate con la mascherina da Covid nera, perché non vogliono mettersi il burqa, soprattutto le giovani, ma i talebani non hanno ancora capito che esistono le ciglia finte, quindi in tante le mettono come atto di contrasto a quello che sono costrette a subire.  

Le manifestazioni ci sono ma sono sempre meno perché le prendono subito, le arrestano, le frustano, le minacciano di andare a prendere il padre o il marito o il fratello che lavora. Le famiglie si ritrovano spezzate e cercano di non mandarle a manifestare. Tutto quello che si fa, viene fatto in maniera clandestina. Ci sono associazioni che prima lavoravano in Afghanistan, anche italiane, che clandestinamente stanno ancora lavorando lì.

Se ne può parlare solo sottovoce visto che come la gente ha accesso a internet ce l’hanno anche i Talebani, che controllano tutto. 

Sono sicura che la prossima volta che chiederò il visto, dopo quanto mi sono spesa in questi anni per le donne afghane, non mi faranno più entrare. Ma è il prezzo da pagare se vuoi cercare di diventare almeno un po’ la loro voce.  

Che ne è delle donne afghane scappate dal paese? 

E’ una diaspora molto giovane. Dal 2021 sono arrivate 5 mila donne in Italia. Sono arrivate traumatizzate, da una vita che avevano scelto si sono ritrovate nel nulla, non era gente scappata perché cercava un lavoro, sono state salvate perché un lavoro ce l’avevano, facevano parte della società civile.

Ho un’amica ostetrica che fa le pulizie, una chirurga a cui hanno detto che può fare solo la badante e mi dice “ma perché mi avete salvato se io non posso essere il motivo per cui mi avete salvato”? 

E’ una vera contraddizione che dobbiamo risolvere perché se abbiamo preso queste donne per preservare la società civile dobbiamo preservarle, non affondarle. Piano piano si stanno attivando anche qui, nel momento in cui imparano l’italiano vogliono far sentire la loro voce. C’è anche il fatto che quelle rimaste nel paese dicono “noi siamo rimaste e voi vi siete salvate” per questo quelle che sono scappate sentono il vero bisogno di diventare la voce di quelle rimaste. 

Stanno cominciando a farlo così, come hanno fatto le iraniane, che però vengono da una diaspora decennale. Le afghane prima o poi lo faranno. Molte di quelle che sono arrivate qui sono professioniste che, se i Talebani se ne andassero via domani, tornerebbero nelle loro case perché hanno famiglie, genitori, fratelli che stanno ancora lì. Per ora però siamo noi a dire loro di stare qua, di cercare di sopravvivere, sono tenute in una bolla in attesa di poter eventualmente tornare. Qualcuno non tornerà perché nel frattempo la vita va avanti, se trovano un buon lavoro, se riescono a rimanere, soprattutto in Europa, perché è più facile che in Italia dove vengono sommersi dalla burocrazia.

A volte ci sono anche situazioni tragicomiche ma questo vale per tutti i profughi che arrivano dalle varie parti del mondo. Hanno avuto vita un pochino più facile le ucraine perché sono state in qualche modo aiutate, ma tutti gli altri che vengono dall’Africa, da altri posti di guerra, Siria o Afghanistan, hanno veramente faticato.

Per cui ci sono tante iniziative a volte nascoste e basterebbe poco per fare qualcosa per le afghane. Quando vado nelle scuole racconto che ci sono delle ragazze adolescenti – o quelle di 20 anni che andavano all’università – che adesso non hanno nessuno con cui parlare perché non possono uscire di casa. Oggi è vietato fare una passeggiata nel parco da sola, è vietato andare in un caffè, hanno chiuso i parrucchieri perché “sono covi di donne”. Le ragazze restano chiuse a casa anche perché i genitori le tengono a casa, perché hanno paura che un talebano le veda fuori e le frusti. 

C’è una mia carissima amica con passaporto canadese, figlia della diaspora afghana, tornata nel 2017 e famosa tiktoker in Afghanistan che vedo tutte le volte che ci vado. Nel 2021 dopo il ritorno dei Talebani ci siamo incontrate e le ho chiesto perché restava – ha il passaporto canadese per cui poteva farcela a uscire – mi ha detto che non voleva andarsene per le donne afghane. Ha creato una ONG e le aiuta. 

Come tante altre ha scelto di restare. Alcune di queste sono già state uccise. La arrestano, la tengono un mese, poi essendo Pashtun -la stessa etnia dei talebani-, ed essendo una “manipolatrice positiva”, in qualche modo riesce a uscire. Riprende a fare le sue cose, ovvero aiutare le donne. La settimana scorsa, mentre ero in tram a Roma, mi è arriva una sua videochiamata. Di solito lei, che è bellissima, è truccata, non mette il velo ma usa il turbante, si veste come nella tradizione Pashtun, sgargiante, era invece vedo senza trucco, devastata. L’hanno tenuta in galera 40 giorni, l’hanno frustata, non riusciva neanche a camminare. Le ho detto di venire via e lei mi ha detto “le donne afghane non le mollo”. Queste persone sono il motivo per il quale continuerò a parlare di loro. Abbiamo preso un impegno con queste persone. Bisogna andare avanti fino a che saranno loro a cadere. Cadranno prima o poi. Finché hanno soldi che gli entrano, i Talebani possono andare avanti ma anche all’interno non sono un monolite. C’è sicuramente un gruppo – e lo ha già dimostrato – che pur di sollevare qualche sanzione sarebbe disposto a mandare le ragazze a scuola. Però finché c’è lo zoccolo duro di Kandahar, con questo leader spirituale che è un misogino pazzesco, la situazione resta così. Le donne non devono restare così. Hanno bisogno dell’aiuto di tutti, soprattutto dei giovani, anche solo per tenere compagnia a queste ragazze. Molte parlano inglese, quindi si può avere a che fare con loro, esattamente come si sta facendo con quelle che sono arrivate qui: c’è una campionessa di ciclismo a Vicenza che si è presa quattro cicliste della squadra nazionale, tutte ragazze di vent’anni più o meno, le porta in giro per il Veneto in bicicletta. Sono tutte cose che si possono fare con chi sta qui o in modo un pochino più complicato, ma questo già lo stiamo facendo noi in tutti i modi possibili, con chi sta lì.

Oltre alla resistenza delle donne, ci sono altre contraddizioni, altri elementi che possono mettere in crisi i Talebani?

Con i riflettori spenti sull’Afghanistan le cose resteranno così. I Talebani fanno i loro comodi senza che nessuno faccia pressioni. Sarebbe più difficile se avessero gli occhi puntati addosso ma questo non si fa anche perché si dovrebbero rispondere di alcune cose. All’interno dei Talebani ci sono tanti gruppi diversi, uno per esempio era più vicino ad Al Qaeda, la rete Haqqani, considerato un gruppo terroristico, è paradossalmente più emancipato del gruppo guidato da Akhundzada che sta a Kandahar. Non sto dicendo che bisognerebbe sostenere un gruppo rispetto ad un altro, perché sono uno peggio dell’altro, però incrementare le divisioni potrebbe essere un fattore che li indebolisce. Ci sono anche i talebani pakistani che sono spesso e volentieri in lotta con quelli afghani. Il confine con il Pakistan è abbastanza pericoloso in questo momento, spesso le frontiere vengono chiuse, ci sono attentati da una parte e dall’altra. Tutte queste cose non si sanno perché se ne parla poco. C’è stato il fronte del figlio di Massoud, il leone del Panjshir che è stato ucciso il 9 settembre 2001 prima dei grossi attentati, che ha provato un pochino a resistere ma poi sono stati massacrati dai Talebani. Il figlio di Massoud ha ripiegato in Tagikistan, dove continua a mantenere la sua organizzazione, ma di fatto non è molto efficace. Penso che non sarà attraverso la guerra o le armi che cambieranno le cose, come è stato dimostrato, e l’Afghanistan ne è l’esempio plateale. Contro la Russia, l’Occidente ha dato armi ai signori della guerra, li ha riempiti di armi. Quando i russi sono andati è iniziata una delle peggiori guerre civili per il potere proprio tra i signori della guerra. Contro i Talebani ci sono stati vent’anni di guerra fatta da tutti gli eserciti più forti probabilmente al mondo, con tutte le tecnologie più moderne e nessuno è riuscito a battere questi qua che erano in ciabatte e Kalashnikov, anzi loro hanno battuto gli americani e gli alleati. 

Di fronte a quello che è successo, vogliamo dire che la guerra può essere la soluzione?

L’unica cosa di cui hanno paura i Talebani è la cultura. E’ quella che stanno distruggendo. Dobbiamo finanziare le donne, i medici, tutti quelli che possono agire in modo sotterraneo e clandestino non attraverso le armi. Le armi portano solo morte. Troppa gente istruita non farà sicuramente piacere ai Talebani ma è l’unico modo per sconfiggerli. La cultura è più forte dell’ignoranza, secondo me.

In questi ultimi vent’ anni Kabul è passata da un milione a sei milioni di abitanti, è vero?

La gente si è riversata nelle grandi città, a Kabul in particolare, perché lì c’era un sistema, il governo. C’era anche la corruzione proliferante che serviva a tutti, era il caos. I giovani venivano lì, i genitori mandavano i figli nella capitale. C’erano però anche le opportunità di lavoro, conoscenza anche di fuga. Lì sembrava più facile trovare vari mezzi per poter venire eventualmente in Europa. Kabul è cresciuta e si è moltiplicata. E’ rimasta una città molto affascinante in una valle circondata dalle montagne rosa. Ci sono anche dei grandi campi di sfollati, ci sono tre milioni e mezzo di sfollati interni e in questo momento sono forse quelli che vivono nelle condizioni peggiori. A Kabul c’è pochissima elettricità. A duemila metri d’inverno si arriva meno venti, meno venticinque, si muore di freddo e si muore di fame. Le Nazioni Unite, che sono ancora presenti, non hanno più i soldi perché i paesi donatori si sono completamente dimenticati dell’Afghanistan. Se all’inizio nel 2021 il World Food Program dava 21 milioni di pasti al mese alle famiglie su una popolazione di 42 milioni, adesso non riesce neanche ad arrivare a metà. Non si capisce dove tutte queste persone dovrebbero trovare da mangiare. 

I Talebani dicono che la sicurezza è migliorata. E’ vero che è diminuito il rischio di morire in uno scontro a fuoco, ma sono aumentate la criminalità, le rapine, i rapimenti. Forse adesso questi ultimi sono un po’ diminuiti, nel senso che la gente è così povera che se la rapini non prendi niente, e se rapisci i bambini per chiedere un piccolo riscatto ai familiari, anche in questo caso sono così poveri che non ci ricavi niente. 

Se sono diminuiti alcuni reati non è perché i Talebani hanno assicurato la sicurezza. C’è ancora l’ISIS e l’Al Qaeda, che sono attivi e si scontrano spesso contro i Talebani, che li ritengono meno rigidi di quanto dovrebbero essere. In alcune zone c’è il rischio di attentati e di vittime civili. Restano tutte le conseguenze di questi 50 anni di guerra: le mine. L’Afghanistan è il paese più minato al mondo, con un tasso di popolazione disabile altissima soprattutto tra i minori. Gli adulti sanno che non devono andare qua e di là, i ragazzini invece corrono dappertutto e le esplosioni sono all’ordine del giorno.

A chi ci si può riferire in Italia per continuare a sostenere la popolazione e le donne afghane?

Nove Caring Humans Onlus https://novecaringhumans.org/ è un’associazione che opera ancora in Afghanistan. Sono una piccola organizzazione ma efficace, curano tra l’altro i progetti in due orfanotrofi, di cui uno femminile. 

Ci sono le organizzazioni sanitari come Medici Senza Frontiere ed Emergency con cui i Talebani hanno un atteggiamento per così dire più soft. 

C’è il Cisda Coordinamento Italiano Sostegno Donne afghane https://www.cisda.it/ che è collegato tra l’altro alla storica organizzazioni di donne RAWA Revolutionary Association of the Women of Afghanistan https://www.cisda.it/chi-sosteniamo/rawa/ .

Come siti d’informazione, a parte Radio Bullets https://www.radiobullets.com/, ci sono siti d’informazione che parlano di quello che succede in Afghanistan? 

I giornali internazionali a volte ne parlano, certo non come prima, ma alcune notizie si trovano in The Guardian, la BBC, anche perché comunque resta un paese che merita di essere raccontato, anche solo per la posizione. Al Jazeera ne parla perché non riescono ancora a fare entrare degli inviati.

C’è Radio Begun, una radio di donne afghane, che hanno tentato di chiudere più volte. Fanno programmi di istruzione radiofonica per le donne, per le ragazze in FM e arrivano un po’ dappertutto. I Talebani le lasciano ancora lavorare, ma ogni volta gli mettono delle regole nuove. La direttrice viene aiutata dalla Francia, da Parigi, da altri giornalisti che stanno a Parigi. Su di loro c’è un film molto bello che si chiama Radio Begun.

Loro ancora sono attive. Chiaramente fanno tutto da sole perché intorno non devono avere neanche un maschio, manco un tecnico per questo hanno imparato a farsi tutto da sole, come andare sui palazzi a sistemare le antenne per la diffusione del segnale.

Passiamo a parlare di alcune letture per capire l’afghanistan. Noi consigliamo il tuo libro “Burka Queen”. Ce ne puoi parlare?

Burka Queen https://store.youcanprint.it/burqa-queen/b/e5d20435-540c-511a-b27e-9d2bb440c941 è la storia di tre ragazze afghane. Una sedicenne che sta per sposarsi in un matrimonio forzato e racconta la prima sera del matrimonio. Una ex poliziotta e una insegnante che non può più insegnare. Senza fare spoiler le loro storie si intrecceranno. 

Non avrei voluto scrivere un libro sull’Afghanistan perché ne ho parlato talmente tanto che non ne sentivo l’esigenza. Ma una storia che ho raccontato su Radio Bullets due anni fa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Mi è salita una tale rabbia che ho detto: ma è possibile che mi debba arrabbiare da sola, tanto più che eravamo in epoca di pandemia? Voglio scrivere qualcosa che contagi tutti quelli che lo leggono. Voglio tutte arrabbiate per quello che sta succedendo in Afghanistan, ma anche per tutte le donne nel mondo. Non è che ne muoiono meno in Sud America, o basta guardare le cose anche da noi, o in Africa. Ho scritto un libro per far arrabbiare le persone, per connetterci con la nostra rabbia. Dovevo trasformare la mia rabbia in qualcosa di propositivo, se no esplodevo. Ero arrivata proprio al limite anche perché in più di vent’anni che seguo l’Afghanistan avevo buttato dentro un sacco di schifezze, che ho restituito in questo modo cercando di far arrabbiare tutte e tutti.

Prima di andare avanti con la lista di libri, abbiamo più volte nella nostra chiacchierata parlato di Radio Bullet. Due parole sulla vostra emittente?

E’ una testata giornalistica indipendente che nasce un po’ come il libro Burqa Queen, sull’onda della rabbia di alcune giornaliste indipendenti che si sono sempre occupate di esteri. Visto che il mainstream di esteri non parla se non per alcuni posti, ci siamo messe insieme, unite, e da dieci anni raccontiamo le voci dimenticate

Abbiamo scelto Bullets come i proiettili, perché frantumiamo il silenzio. 

Tutti i giorni c’è un notiziario di 16-17 minuti che fa il giro del mondo, ci sono approfondimenti. Parliamo molto di Afghanistan, Palestina. Abbiamo un notiziario il venerdì sull’Africa, tenuto da Elena Pasquini, il martedì un notiziario in genere, tenuto da Angela Gennaro, io copro gli altri giorni con il resto del mondo. 

La radio è sostenuta da chi ci ascolta: c’è chi mette 10 euro e c’è chi ne mette 300. Non abbiamo editori, facciamo tutto noi, ancora non riusciamo a vivere solo di questo per cui dobbiamo continuare a fare il nostro lavoro di freelance per altri giornali. Personalmente sto cercando di lasciare del tutto il giornalismo mainstream per potermi dedicare solo a Radio Bullets, che almeno dà gioia nonostante raccontiamo vicende tragiche. Crediamo di fare il giornalismo come pensiamo dovrebbe essere per la società civile, come era una volta.

A cura di Settimo scaffale

Flusso intergenerazionale informale di persone, per ora umane, a cui piace leggere e condividere


BIBLOGRAFIA 

  • Il grande gioco di Peter Hopkins https://www.adelphi.it/libro/9788845924750 . Un lettura indispensabile per un acuto sguardo sul passato
  • I tre libri di Khaled Hosseini: Il cacciatore d’aquiloni https://www.edizpiemme.it/libri/il-cacciatore-di-aquiloni/ (2004) – Mille splendidi soli  https://www.edizpiemme.it/libri/mille-splendidi-soli/ (2007) – L’eco rispose https://www.edizpiemme.it/libri/e-leco-rispose/ (2013)
  • Il libraio di Kabul https://www.rizzolilibri.it/libri/il-libraio-di-kabul/  di Åsne Seierstad
  • Le rondini di Kabul https://www.sellerio.it/it/catalogo/Rondini-Kabul/Khadra/13550  di Yasmin Akadra. Un vero capolavoro suggerisce Barbara 
  • Terra e cenere https://www.einaudi.it/catalogo-libri/narrativa-straniera/altre-narrative/terra-e-cenere-atiq-rahimi-9788806203269/  di Attic Raimi.

Veramente bello. 

Da cui è stato tratto un film https://www.mymovies.it/film/2012/thepatiencestone/  nel 2012