Leggere nasce dalla curiosità del presente. In questo momento storico come far mancare sui propri scaffali qualche volume che guardi all’est dell’est, alla lontana ma vicina Cina, e non solo ad essa?
Viviamo in tempo reale la fine della globalizzazione a guida americana. Un tempo in cui sottosistemi vecchi e nuovi, statali e privati, in cerca di affermazione, sgomitano per avere il proprio posto al sole nel tempo in cui il capitalismo è oltre l’umano.
“Il capitalismo è oltre l’umano”: LINK.
È sufficiente guardare alla Cina? O il nostro sguardo curioso, fuori da ogni semplificazione, deve rivolgersi all’intera parte del pianeta che chiamiamo Asia?
L’abbiamo chiesto a chi se ne intende e, siccome gli esperti servono, soprattutto se sono disponibili a condividere quanto sanno, abbiamo intervistato Simone Pieranni, che ringraziamo. Gli abbiamo chiesto di parlarci del suo ultimo libro “ 2100. Come sarà l’Asia, come saremo noi” (Edizione Mondadori, Collana Strade Blu, 2014) e di consigliarci qualche altro volume per iniziare ad orientarci.
Il titolo del tuo ultimo volume già indica una riflessione: cosa significa che saremo influenzati nel bene e nel male da quel che avviene in Asia?
Che ci interessi o meno, saremo influenzati dall’Asia e quello che succederà lì ci riguarderà, per forza di cose. L’Asia, pur con tutte le sue differenze e contraddizioni, e il suo pluralismo etnico, culturale e religioso è ora il posto al mondo che cresce di più economicamente. E’ una potenza economica, soprattutto per quello che riguarda le nuove tecnologie. Anche se la Cina offusca un po’ tutto, non possiamo dimenticare che Vietnam e Malaysia stanno diventando hub tecnologici fondamentali per i data center e l’intelligenza artificiale. Benché ci siano alcuni paesi come Cina, Corea e Giappone che hanno la stessa nostra crisi demografica, l’Asia è una potenza demografica. Cina e India sono 3 miliardi di persone, l’Indonesia 800 milioni. Diverse aree del sud-est asiatico hanno una popolazione molto giovane. Continuiamo a ritenerci sempre il primo mondo, ma non lo siamo più. Come già successo nella storia, il luogo più avanzato da un punto di vista economico finisce per influenzare gli altri, anche se non è detto che questo avanzamento corrisponda a tutta un’altra serie di parametri. Ci sono vicende e tendenze che ci dimostrano che questo processo è già in atto. TikTok è uno degli esempi più clamorosi: un’app made in China, con 170 milioni di americani iscritti, ha cambiato completamente grande parte dell’economia della produzione culturale negli Stati Uniti. I movimenti femministi americani, come ho visto di recente, hanno ripreso, citandolo, il movimento dei Quattro “no” delle donne sudcoreane (bisekseu, no sesso – bihon, no matrimonio – biyeonae, no frequentazioni e bichulsan – no maternità). Sul cosiddetto piano geopolitico, la Cina conta sempre di più. Ma anche paesi come Indonesia, Malaysia, che sono paesi musulmani, contano sullo scenario internazionale, visto che il 70% dei musulmani vive in Asia, e sulla questione mediorientale, la guerra israeliana a Gaza, hanno qualcosa da dire. In Malaysia sono stati chiusi esercizi commerciali di aziende americane per il boicottaggio durissimo che c’è stato. Perfino a Singapore dove i musulmani sono solo il 16%, ci sono state delle piccole manifestazioni – significative visto che è una specie di prigione a cielo aperto dal punto di vista securitario – e lo stesso governo è stato molto critico nei confronti dell’ambasciata israeliana. L’Asia è un luogo centrale, molto più di quello che crediamo noi, che guardiamo sempre dal nostro ombelico. Possiamo anche non interessarcene, possiamo fregarcene ma saremo influenzati da quel che vi accade.
Quando si parla di Asia, così come di Africa, in molti casi si parte con il piede sbagliato. O facciamo di tutta l’erba un fascio, o diciamo Asia e pensiamo alla Cina, diciamo Africa e pensiamo ai migranti, mentre solo una piccola parte di africani sono quelli che migrano. Tendiamo a fare semplificazioni.
Nel tuo podcast Altri Orienti che consigliamo caldamente, offri un’immagine articolata dell’intera area, raccontando i vari paesi, le loro differenze così come le varie connessioni.
Come per l’Africa si dovrebbe parlare di Afriche, anche per l’Asia si dovrebbe parlare di Asie. In Asia non c’è un sentimento asiatico, nel senso che l’unica volta che c’è stato un sentimento panasiatico – tipo l’Asia agli asiatici – è stato associato a momenti piuttosto bui, quelli dell’imperialismo giapponese o della colonizzazione. A Singapore, per esempio, si preferivano i giapponesi ai britannici perché comunque erano asiatici, anche se era un’occupazione di fatto. Diciamo Asia, ma è un territorio all’interno del quale c’è un pluralismo incredibile. Ci sono potenze regionali. Ci sono conflitti anche regionali tra paesi. Oggi in gran parte sono diplomatici, ma sono stati anche militari perché è un continente che ha una sua storia pre-colonizzazione. Per dire, il Vietnam ha sconfitto sia francesi che americani, che cinesi, per cui non lo possiamo considerare un paese che non conta niente a livello simbolico.
Vietnam, Malaysia e tanti altri paesi sono cresciuti molto, nel bene e nel male. Questa esplosione è stata solo degli ultimi vent’anni?
Sull’aspetto del tempo, consiglio sempre un libro sulla Cina, che però, a mio avviso, va bene per tutta l’Asia. Si tratta di “Adam Smith a Pechino” di Giovanni Arrighi. Giovanni Arrighi, teorico del sistema mondo, ha scritto anche “Il lungo ventesimo secolo” e ha analizzato i cicli di accumulazione del capitale, attraverso i quali intravedeva nella storia quello che è stato il secolo dei genovesi, poi quello degli olandesi, poi dei britannici e poi degli statunitensi. A fine anni novanta, trent’anni fa, diceva che l’accumulazione del capitale avveniva in Asia e che proprio l’Asia sarebbe stata la zona del mondo che avrebbe determinato il futuro della terra. Dato che la Cina allora non era quello che è oggi, vedeva il paese simbolo di questa svolta asiatica nel Giappone. Diciamo che se avesse dovuto scommettere probabilmente avrebbe puntato sul Giappone. Arrighi è morto a inizio degli anni 2000 e non ha potuto proseguire la sua ricerca. La cosa interessante è che all’interno di questo ciclo di accumulazione del capitale, sottolineava uno spostamento politico, la possibilità che si potessero affermare paesi fuori dal cosiddetto Washington consensus. Esattamente quello che ha fatto la Cina. Il libro, per certi versi, è preveggente, anche se un po’ troppo ottimista su alcune cose come ad esempio il fatto che questa accumulazione potesse portare a dei processi diversi da quelli capitalistici, visti nel mondo occidentale. In realtà la Cina ha ricalcato quei passaggi: poca attenzione all’ambiente, ai diritti del lavoro e alla fine con Xi Jing Ping una politica molto assertiva sul piano estero. Arrighi riteneva che dall’Asia sarebbe potuto nascere una nuova forma di Commonwealth, un’idea che è, per certi versi, nella testa dei cinesi: la Cina al centro di un mondo, in qualche modo pacifico.
La rilevanza dell’Asia comincia negli anni ‘80 con le tigri asiatiche.
Le tigri asiatiche diventano tali perché seguono i dettami del liberismo sfrenato sul modello della scuola di Chicago. Nonostante l’iniziale sviluppo poi si schiantano, ma il processo era iniziato. Di questo parla anche il libro “Il secolo asiatico” di Parag Khanna. Da venticinque, trent’anni anni, siamo di fronte a un nuovo mondo. La prima volta che sono andato in Cina era il 2006. All’inizio quando tornavo rimanevo abbastanza sconvolto dai pregiudizi sulla Cina e sull’Asia. A volte ancora oggi mi chiedo a cosa è servito quello che ho fatto, visto che, a tanti anni di distanza, la situazione è ancora uguale: al di là della cerchia di persone che viene alle mie presentazioni, ci sono ancora stereotipi e pregiudizi nell’opinione pubblica. In più c’è una pressione da parte degli Stati Uniti contro la Cina che ha portato l’opinione pubblica ad essere molto diffidente nei confronti di tutto quello che arriva da quel mondo. La recente vicenda di Deepseek è emblematica. Gli operatori tecnologici americani hanno capito al volo cosa era successo e si sono subito preoccupati mentre in generale la reazione della stampa, dell’opinione pubblica è stata quella di dire che c’era qualcosa di poco chiaro in tutta la storia. Non si vuole ammettere che ormai tutta una serie di processi avvengono meglio là che qua. Non significa che sia meglio, però è la realtà che abbiamo di fronte.
Nell’introduzione del tuo libro, composto da 10 capitoli che spaziano su vari argomenti e in vari paesi, giustamente, dici che bisogna distinguere i popoli dai governi e che i giovani asiatici sono molto più vicini ai nostri giovani di quanto pensiamo.
La prima affermazione è una specificazione che faccio sempre, in particolare da quando è iniziata l’invasione russa in Ucraina. In Italia sembra aver preso piede una sorta di passione per una geopolitica ultra deterministica, che Kissinger non portava avanti già ben più più di trent’anni fa e che ignora completamente gli studi decoloniali, i corpi sociali e condanna gli stati alla propria posizione geografica. Siccome la Russia non ha montagne deve occupare un altro territorio oppure visto che negli Stati Uniti gran parte della popolazione è di origine tedesca quindi sono nazisti.
C’è un determinismo, presentato all’opinione pubblica, che confonde gli stati, il potere statale con i paesi. Non è così. A me interessa molto di più vedere cosa succede dentro ai paesi, perché è lì che avvengono tutta una serie di mutamenti sociali che poi determinano per forza di cose anche le posizioni internazionali. E’ molto più interessante vedere cosa succede dentro ai paesi che non seguire quello che fanno le leadership. Non mi trovo quasi mai d’accordo con nessuna leadership al mondo, per questo mi interessa molto di più cercare cose diverse dalle quali prendere spunto. Le giovani generazioni in questo momento sono molto più vicine tra loro di quanto non sia stata la mia generazione o quella di mio padre. Se anche fosse vero che viviamo nel secolo asiatico, non possiamo dimenticare che questo avviene all’interno del complessivo sistema capitalistico. Le trasformazioni che stanno vivendo i cinesi sono le stesse che stiamo vivendo noi. Quello che mi interessava mettere in evidenza nel mio libro era far vedere che loro discutono delle stesse cose di cui discutiamo noi: riscaldamento globale, lavoro, informazione, diritti. I giovani sono molto simili a quelli occidentali sulle questioni dei diritti, del lavoro, dell’ambiente. Consideriamo che in Cina avere un movimento anti-lavorista è veramente uno scarto quantico rispetto al passato. Ed ancora sentire giovani cinesi di trent’anni, che dicono “io sono socialista, è il partito comunista che non è socialista”, è un cortocircuito. Ritengo interessante raccontare queste cose, visto che tra l’altro avvengono anche in Corea o in Giappone. Un’altra cosa che mi pare interessante sono i movimenti ambientalisti. In Indonesia utilizzano il rock per diffondere la questione del riscaldamento globale, un problema grosso da quelle parti perché sono tutte isolette oltre a Jakarta che sta sprofondando. Se leggi il mondo attraverso chi detiene il potere parli di scontro di civiltà, se guardi dentro le società civili dovresti parlare di internazionalismo. A volte durante le presentazioni dico che se i giovani italiani potessero parlare con i giovani cinesi, se fossero in grado di mettersi in ascolto gli uni degli altri, si scoprirebbero molto più vicini e scoprirebbero che in realtà il nemico è comune, non è uno cinese e uno italiano.
Chiudiamo con una serie di libri utili a capire l’Asia. Sappiamo che il primo che segnali è “Asia Ribelle”. Perché lo consigli così caldamente?
“Asia ribelle” di Tim Harper è uno di quei libri che diventano fondamentali nella storia di una persona. Ti fa scoprire un mondo che non si conosce. E’ un bel tomo ma è avvincente: ogni vita che ti racconta è un romanzo. Nella recensione che ho fatto per Il Manifesto ho raccontato l’enorme quantità dei personaggi che appaiono e scompaiono. Quando lo leggi capisci ancora meglio che non c’è la percezione di cosa è stato il colonialismo in Asia. Cento anni fa l’Asia non era quella di oggi. Come dice il libro, c’era il Raj britannico, l’Indocina era francese, c’erano le colonie olandesi, la Cina era un impero morente. Questo era 120 anni fa, non è tanto, è una generazione e mezza. Il libro ci aiuta anche a capire perché una parte di mondo ci è ostile, anche se è un sentimento che sta scemando perché le nuove generazioni non lo hanno più e che c’è una sorta di senso di rivalsa di una parte di mondo contro chi lo ha dominato. “Asia ribelle” è un racconto fenomenale, ti inchioda a una fase storica che è stata violentissima. Nello stesso tempo ti racconta come la cenere sotto cui hanno bruciato i movimenti di indipendenza erano idee molto diverse dagli stati nazionali.
Ti dà l’idea di un futuro che poteva essere diverso. C’è la lotta anticoloniale e poi c’è l’istituzionalizzazione della lotta anticoloniale, che smorza completamente le istanze rivoluzionarie di quei tanti personaggi di cui Tim Harper ci racconta la vita.
Buona lettura!
Inoltre Simone Pieranni su vari paesi dell’Asia, esclusa la Cina, consiglia:
“All’ombra del dragone, il Sudest asiatico nel secolo cinese” di Sebastian Strangio
“Malesia blues” di Brian Gomez
“Età del male” di Deepti Kapoor
“La bellezza è una ferita” e “L’uomo tigre” di Eka Kurniawan
“Famiglie ombra” di Mia Alvar
“Atti umani” di Han Kang
“Revolusi. L’Indonesia e la nascita del mondo moderno” di David Van Reybrouck
Una occhiata va data a ADD Edizioni nella sezione Asia che contiene molti volumi interessanti.
Ai libri consigliati da Simone aggiungiamo due volumi di una cara amica, Carla Vitantonio, “Pyongyang blues” e “Myanmar Swing” e un volume imperdibile “AI 2041. Scenari dal futuro dell’intelligenza artificiale” di Chen Qiufan e Kai-Fu Lee
A cura di Settimo scaffale
Flusso intergenerazionale informale di persone, per ora umane, a cui piace leggere e condividere.