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Blocco di tangenziale e autostrada a Bologna il 3 ottobre 2025 - Foto di Michele Lapini

Una lotta dopo l’altra

I giorni sono uguali solo se li misuri con il tempo lineare, quello che scandisce il perpetuarsi dell’ordine costituito. Il tempo della settimana del blocco della Flottilla è stato un tempo lungo e breve, lo abbiamo misurato come spazio delle opportunità, quindi brevissimo, e come intensità emozionale, quindi lungo ben oltre ciò che dice la clessidra. E’ stata una settimana straordinaria per molte sue dimensioni, qualità, spin. E’ stata una settimana rivoluzionaria, proviamo a spiegare perché.

La dimensione quantitativa: milioni hanno preso strade e piazze, i numeri contano quando la contabilità ha fatto un salto di scala. E lo hanno fatto per decine di ore, per una settimana.

La dimensione qualitativa. Decine di città agitate hanno occupato la scena politica ed hanno praticato il blocco degli spazi urbani, esteso fino a stazioni, tangenziali, autostrade, porti ed aeroporti. Ed hanno difeso i blocchi con crescenti livelli di resistenza. Quello che serviva è stato fatto. 

Il salto quantico. L’attivazione di queste due dimensioni ha scosso le istituzioni sindacali ottenendo, dal 22/09 al 2/10, lo sciopero generale, che per sua convocazione è stato bio-politico e sociale – la lotta contro il genocidio è biopolitica e l’astensione dal lavoro praticando il blocco delle città è sociale. 

Hysteria – Lemi Ghariokwu

La dimensione mediterranea e globale. La Global Sumud Flotilla ha costruito una spazialità reticolare e moltitudinaria, non una semplice missione umanitaria. Questa capacità di connettere soggettività in tutto il mondo è stata la miccia che ha innescato gli  eventi. Ha politicizzato lo spazio del Mediterraneo, trasformandolo da confine a campo di battaglia simbolico e materiale attraverso una coalizione internazionale ibrida, eterogenea e determinata. La GSF è riuscita ad essere Azione Non Governativa capace di attaccare frontalmente il governo israeliano e il piano Trump–Netanyahu – che ha fatto del blocco degli aiuti e della fame un’arma di guerra. Tutto questo mentre l’Onu andava in frantumi o – a seconda dei punti di vista – ricombinava i suoi assetti di potere, e mentre gli operatori umanitari vengono colpiti come bersagli militari. Il Mediterraneo è diventato, grazie alla Flottilla, uno spazio politico globale che, da Tunisi e Roma, è arrivato fino ad Amsterdam, Città del Capo e Kuala Lumpur. Lo abbiamo attraversato insieme, mettendo in luce le complicità dei governi nel genocidio del popolo palestinese e superando, almeno in Europa, quel senso di impotenza che ci ha permesso di strutturare la lotta, per la Palestina libera.

La dimensione continentale. Noi scegliamo una narrazione continentale, non nazionale, di questa settimana — perché così è stata. Il blocco della GSF è diventato il centro di centinaia di attivazioni urbane in tutta Europa: si è mossa l’Europa, non l’italia (minuscolo voluto). Il colpo che abbiamo inferto alla pluriennale stabilità del governo Meloni è,  al tempo stesso, un colpo a Trump, a tutti i sovranismi del continente e, soprattutto, agli equilibri e ai veti incrociati che strutturano l’UE e che finora hanno impedito di prendere iniziative concrete per la vita dei palestinesi, applicare sanzioni e interrompere i rapporti con il governo Netanyahu. La dimensione politica europea si costituisce proprio nelle piazze urbane di questa settimana. E l’italia, da anomalia, è diventata protagonista grazie al vento Mediterraneo che ci dice che è ora di cambiarla veramente l’Europa per non essere più complici.

La collocazione politica ovvero la pace e la guerra. Le lotte hanno parlato di diserzione dalla guerra di offesa e sterminio, non di pacifismo. L’iconografia dei blocchi delle stazioni e delle autostrade si sono colorate di diritto di resistenza all’ordine di guerra e al dispositivo genocidiario. Non si sono deposte le armi, se ne sono trovate per difendere i blocchi, oltre la metafisica della pace.

Una lotta dopo l’altra, migliaia, decine di migliaia, milioni. È stata una settimana rivoluzionaria perché sono stati travolti i campi politici e gli schemi classici, ad esempio lo sciopero di base è diventato generale ed attivo, la convocazione confederale è diventata unitaria, non nella proclamazione ma nella partecipazione. Il programma della settimana è stato un accumulo di tutte le lotte, è la loro convergenza senza il bisogno della sintesi degli intergruppi. Lo è per la stratificazione della movimentazione e perché vi si intersezionano generazioni politiche.

Una lotta dopo l’altra: le lotte che sono state, riemergono; quelle che saranno, compaiono già ora. Il movimento è contemporaneamente anticapitalista, transfemminista, ambientalista, anticoloniale, antisovranista. Non è  anti-istituzionale bensì potenzialmente produttore di nuovi mondi. Come si potrebbero separare queste dimensioni senza recare difetto alla genealogia del movimento? Esso è figlio – senza rapporto di dipendenza genitoriale – dei cicli di lotta no global, dei Friday For Future, delle maree transfemministe, di Black Lives Matter, …una lotta dopo l’altra.

Lo è perché la lotta contro il genocidio è lotta per la vita contro il dominio del capitale, contro il suo arbitrio, la sua intima volontà assassina. È lotta contro il potere dei fondi speculativi, contro l’economia genocidiaria, contro il piano di ricostruzione di Trump che in ogni caso prevederebbe, come nelle città USA, l’utilizzo dell’esercito per sopprimere la resistenza alla rendita immobiliare.

La Gaza di Trump

In una sola settimana abbiamo iniziato a concepire il reale come qualcosa di trasformabile e, volenti o nolenti, questo nuovo reale intreccia la dimensione digitale. Abbiamo vissuto in maniera accelerata come la narrazione digitale sia diventata essa stessa terreno di mobilitazione, e non più solo di valorizzazione: pensiamo alle migliaia di persone che si sono attivate in difesa di Francesca Albanese; oppure alle frasi sconnesse di politici, trasformate in tempo reale in migliaia di cartelli alzati nelle piazze — «definisci… ogni falsità che continui a dire». Allo stesso modo, la semplice informazione sulla partecipazione della Israel Premier Tech alle competizioni ciclistiche italiane è diventata, nel giro di poche ore, la virtualità concreta della sua esclusione, grazie alla virtualità del poter fare realmente come a Madrid. E così ogni città ha le sue storie straordinarie da raccontare.

In una settimana abbiamo scritto la storia oltre l’algoritmo, che ora è costretto a riposizionarsi. Abbiamo costruito una sorta di blockchain del possibile: una catena di eventi e decisioni irreversibili, blocchi non modificabili che segnano un punto di non ritorno, da cui ripartire certamente, lasciandoci alle spalle la logica frustrata di chi misura i movimenti solo in base all’esito finale degli eventi. Il 4 ottobre, a Roma, la massa era tale che c’era chi, a manifestazione in dirittura di arrivo, non aveva ancora lasciato Piramide… vacci a dire che era meglio se la manifestazione finisse così o colà, in modo conflittuale o pacifico. La vera domanda nella testa di tutti era ed è come rendere quella giornata storica l’inizio di qualcosa.

Nel frattempo, il comando si è riorganizzato — e a ogni riorganizzazione abbiamo risposto. Ai lacrimogeni, con occhialini, malox e guanti di pelle; ai droni della polizia, con le prime riprese aeree autonome, che rendono impossibile negare i numeri reali: 1.096.400 persone in piazza, come mostrano le immagini ;-).

Questo dato pone interrogativi precisi sulla capacità organizzativa da attivare nelle prossime mobilitazioni. Se il comando si struttura attraverso reti e infrastrutture di controllo — satelliti che stabilizzano i droni, reti a fibra ottica che garantiscono la continuità della valorizzazione anche durante gli scioperi, capitali che investono sugli Stati per rafforzare la loro stabilità e dunque il loro comando — allora ogni forma di organizzazione messa in campo nelle piazze è parte integrante del movimento. Ogni cordone, ogni camion di convergenza, ogni strumento di tutela e di potenziamento delle pratiche collettive rappresenta una forma di risposta materiale alle infrastrutture del potere e ci colloca già dentro un nuovo terreno.

Questa settimana ha messo in campo una forma embrionale ma concreta di autonomia organizzativa convergente: un intreccio di saperi, strumenti e volontà che non si limita alla reazione, ma apre la prospettiva di un’organizzazione permanente, capace di rendersi disponibile al conflitto, di non arretrare, di resistere. È su questa ipotesi che dovremmo lavorare nei prossimi mesi: attivare il general intellect, consolidare le infrastrutture costruite in anni di lavoro, trasformare la potenza espressa in questi giorni in una forza durevole, capace di misurarsi stabilmente con le strutture del comando.

William Heath, The March of Intellect (1828) British Museum

Una prima conclusione vorremmo trarla. Si è aperta una crepa nella narrazione anti-élite delle destre che si ritrovano, grazie alle piazze delle ultime settimane, a rincorrere il piano del consenso agitando i soliti fantasmi dell’ordine sociale. Dopo mesi di egemonia del discorso pubblico in chiave sovranista un movimento internazionalista e progressivo ridimensiona l’ego delle destre che si scoprono meno populiste di quanto si sono percepite negli ultimi anni e meno maggioritarie di quanto dicano i dati elettorali. Torna il complesso rispetto alla capacità di mobilitazione delle sinistre, nonostante i tentativi sulle parole d’ordine della reimmigrazione di avere piani sociali a garanzia dell’operato di governo. In Italia la gestione dell’ordine pubblico sconfessa la stretta auspicata dal governo con il DL sicurezza e riporta al centro i rapporti di forza. La destra torna ad essere estensione diretta delle élite, in questo caso di quella più sanguinaria dell’epoca contemporanea. Il riposizionamento nella percezione generale delle destre apre lo spazio per nuove narrazioni contro-egemoniche ampie e di massa.

Siamo stati parte di una settimana rivoluzionaria, i mesi che verranno diranno se riusciremo a fare mesi rivoluzionari e sovvertire il vecchio mondo. Siamo ad una svolta della storia contemporanea, non è la prima volta nella tortuosa dialettica della lotta tra le classi.

Dipende da tutti noi continuare ad essere intimamente rivoluzionari, non dando gerarchie alla composizione politica del movimento, mantenendo ampia – com’è – l’interpretazione della resistenza al progetto genocidiario, diventando ancora più continentali nella pratica e nella parola. Una lotta dopo l’altra, continuiamo a lottare.

Municipi sociali