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Contro la destra. Oltre la sinistra

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  • Categoria dell'articolo:Oltre l'umano

Il tema che si pone, od almeno, che noi ci poniamo e condividiamo in questa nota, è se vi sia e quale sia ad oggi la potenza espressiva della categoria “sinistra” e come ci rapportiamo ad essa nella nuova epoca politica dell’Oltre Umano.

Tale categoria è stata la mediana spartiacque degli schieramenti politici nell’ultimo secolo dello scorso millennio: da un lato i conservatori, dall’altro i progressisti, il tutto nel teatro storico della rappresentanza tradizionale i cui attori furono le coalizioni partitiche espresse alle elezioni politiche dei Parlamenti nazionali.

Le nostre esperienze politiche si sono storicamente collocate nella famiglia della sinistra. Nel nuovo secolo del nuovo millennio evidentemente dobbiamo fare i conti con un mondo nuovo, con un gioco dalle nuove regole, in parte ancora da scrivere.

Innanzitutto acquisiamo alla discussione che l’agone politico è ben più ampio dei Parlamenti e che il ciclo politico delle soggettività a volte compare nei Parlamenti ex-post fasi di genesi e sviluppo ad esso esogene, ed infine che i suoi players sono ben più ampi delle formazioni storiche interne alla forma-partito; anche negli stessi istituti della rappresentanza tradizionale il modo di starvi dentro è più ampio, ha formule organizzative che vanno molto oltre le piramidi tradizionali dei partiti di massa (partito-persona, partito-scopo, partito-territorio, partito-contro il partito…, partito-post nazionale o transnazionale).

Elon Musk è un attore politico, non è un partito, non crediamo sia “di sinistra” e – per ora- non siede al Congresso. Questo non gli impedisce di avere cambiato la mobilità su ruota, su razzo spaziale ed avere alcune decine di migliaia di satelliti in orbita geostazionaria con i quali fornisce internet all’insurrezione iraniana e servizi informativi al fronte di resistenza ucraina: Elon Musk però fa molta politica, ça va san dire.

Ciò su cui ci vogliamo concentrare è la ripartizione del campo politico che, a noi, sembra essere davvero cambiato perché la sovrapposizione tra sinistra e progressismo, destra e conservatorismo appare non collimante, anzi, ci pare un connubio decisamente scisso.

Da un paio di decenni, nel pieno della maturazione del ciclo economico della globalizzazione, la sinistra in Italia, in Europa, negli Stati Uniti, si è collocata sul terreno della conservazione, del mantenimento, della riproduzione del sistema, o meglio dei sotto-sistemi geopolitici in cui opera. La sua ragione d’essere non è la trasformazione, radicale e/o progressiva, ma la conservazione, la ricerca dell’equilibrio, l’inerzia. Le esperienze di governo nazionali di sinistra o a cui la sinistra ha partecipato sono state basate sull’impossibilità a cambiare, sulla difesa degli assetti del potere costituito, sull’impossibilità a pensare l’oltre al capitalismo finanziario e le sue feroci regole di gioco.

Quanto diciamo lo riferiamo alle “realtà effettuali” nazionali. Sul piano municipale, al contrario, ci sono interessanti fenomeni progressisti in Europa, a volte in relazione tra essi, ma non vi è ad oggi un piano di traduzione dal municipale al confederale, anche se vi è spazio ed opportunità.

Di crisi in crisi, di anno in anno, lungo tutto lo spettro delle contraddizioni, la sinistra è TINA, there is not alternative, e l’appello: “comunque, elettori responsabili, diversamente sarebbe peggio”. Questo è evidente nei partiti socialisti, ma ci pare che sia una tendenza che eccede questo perimetro e tracima nell’intero campo delle sinistre.

La forma politica delle destre assume il linguaggio del cambiamento, della rottura. Rompere per mantenere, ovviamente. Mantenere per tutelare i processi di accumulazione, naturalmente.

La sinistra, nel pieno della sua crisi di missione, di ruolo, di modello, non ha alcun piano di gioco strategico, nemmeno più quello teleologico, ma un insieme di tattiche stagionali che chiamiamo “catastrofistiche”, intendendo con questa parola quel piano di utilizzo sofisticato del mito della catastrofe come metodo per suscitare paura, shock, e produrre tramite esso il consenso necessario per il governo della conservazione. La paura è il combustibile dello status quo.

Pensiamo alla crisi climatica, per la quale la fine del mondo è già avviata e la clessidra sgocciola irrimediabilmente. Se la catastrofe è vera, com’è che non vi è il blocco immediato del regime di accumulazione estrattivista basato sui combustibili fossili? Perché non vi è un comportamento rivoluzionario conseguente a questa ipotesi?

Noi vediamo centrali a carbone che riaprono, rigassificatori a Ravenna e Piombino, non vediamo cantieri che montano con urgenza pannelli solari sui tetti delle scuole ed edifici pubblici; vediamo nuove estrazioni e pozzi per terra e per mare, non vediamo rivoluzioni verdi.

La catastrofe climatica non c’è, questo è il punto se diamo un senso alle parole. Vi è un disastro ambientale causato dalla rapacità del comando finanziario, dalla voracità degli appetiti di un capitalismo sempre più estrattivista e banditesco, con cui la sinistra convive, come vi convivono l’islam politico, i neo-ottomani, gli oligarchi russi, finanche i maledetti mullah talebani nei rispettivi sottosistemi di appartenenza.

Non è una catastrofe, è una crisi nella quale il gioco politico si svolge. La continuazione dell’argomento è questa: “la fine è già scritta, il cambiamento è non pensabile”.

Ci sia consentita una battuta: nel 1991 la sinistra soccombe con la fine di una storia. Sopravvive alla fine di quella -una!- storia l’esigenza di pensare la – un’altra!- rivoluzione. In altri termini, più prospettici, dobbiamo abbracciare il cambiamento e capire anche come l’umano non è un atto di creazione divina, ma un divenire continuo, ricco di cambiamenti, modifiche, adattamenti, innovazioni chimiche, fisiche, fisiologiche, antropomorfiche, antropologiche. Non ci ha creati Dio, non siamo uguali all’homo sapiens perbacco!

Anni fa, nel cuore delle lotte dei gloriosi anni settanta e nel pieno dello scontro arabo-israeliano, un think tank dei padroni noto come “Club di Roma”, teorizzò l’esaurimento del petrolio, addirittura ne predisse un anno preciso. Non è andata così, evidentemente, e non sarebbe mai potuta andare così, come ben sapevano anche i panciuti riccastri del Club; il loro obbiettivo era del tutto politico, cioè creare una storia catastrofica che fosse l’architrave giustificazionista della ristrutturazione capitalistica che si stava avviando per sedare la stagione di lotte in corso, che reclamava più vita e meno lavoro, più agio e meno cottimo, più libertà ed un futuro non scritto con l’alfabeto della fabbrica, del salario, del capitale. Ora nel Club di Roma c’è la sinistra, invitata ad honorem per meriti sul campo.

Il pensiero catastrofista è il bromuro del pensiero rivoluzionario, perché è legittimo pensare che se siamo nel mezzo di una catastrofe non ha senso organizzare il cambio di sistema.

Pensate al tema del debito pubblico, non è stato usato come una clava allo stesso modo? La crisi del debito pubblico fu drammatizzata, con essa ci sarebbe stato il crollo devastante dell’intera società, pertanto si sono avviati i lunghi durissimi anni dell’austerity, la compressione salariale, il taglio del welfare e delle pensioni – ormai non si muore di lavoro, si muore al lavoro. Ora? Nessuno ne parla più. La politica economica monetaria è inflattiva, con uno schiocco di dita della FED si è stampata tutta la moneta che è occorsa ai mercati dei capitali.

Emergenza e catastrofismo, comburente e carburante dei servi della conservazione.

Per molti versi il catastrofismo è metafisico, ovvero rimanda la salvezza ad una dimensione non materiale bensì astratta, divina, superiore alla comprensibilità di noi umani; toglie a noi il diritto e l’obbligo di lottare per cambiare le cose.

Nel convegno Oltre l’Umano abbiamo evocato l’urgenza di tornare a costruire un nuovo pensiero materialista rivoluzionario. Questo si fonda sottraendosi al pensiero catastrofista – innanzitutto poiché la catastrofe non c’è, in subordine perché noi cambiamo e ci adattiamo ai cambiamenti- e costruendo con analisi e comportamenti politici moderni la sfida al comando. Tornando ad essere ambiziosi e liberi.

Vi è in questi giorni un altro motivo per cui diciamo che siamo contro la destra –sempre!- ma anche “oltre la sinistra” ed a volte contro essa: il cosiddetto pacifismo sulla crisi ucraina. Noi non siamo mai stati pacifisti, o per il disarmo dei conflitti. La storia della lotta di classe e dei processi di liberazione ha previsto anche l’uso delle armi. Ma ora siamo al ridicolo, si evoca il pacifismo per “fermare la guerra” quando nostri concittadini europei in Ucraina sono seppelliti da piogge di bombe? Si chiede loro di “sedersi al tavolo” e negoziare la resistenza all’invasione di Putin nel nome del gas che deve tornare ad arrivare in Europa? Si intima il disarmo – degli ucraini- in ragione dello spauracchio della catastrofe nucleare?

Resa, in ragione della paura della catastrofe; irricevibile. Chi dice questo si osservi allo specchio: scoprirà ignavia ed il baratto dell’etica con la “pace”, la resa condita al profumo di TINA. Non siamo parte della stessa famiglia.

Dirsi oltre la sinistra vuol dire liberarsi da un passato che ci andava strettissimo e da un presente che rifiutiamo; la nostra ricerca deve essere orientata a trovare con pazienza e metodo un pensiero rivoluzionario materialista, il punto di partenza è ciò che abbiamo chiamato Matriottismo europeo, molto oltre il 1991.

Siamo nel terzo millennio e le ragioni per farlo ci sono tutte.

Avanti!