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Per risolvere il rompicapo del presente cercare l’orizzonte – seconda parte

…Tra tutti gli Oltreumano possibili manca il nostro.

Per facilitare la lettura il testo è diviso in tre parti, muovetevi con i link tra di esse o scaricate il pdf completo:

#1 Oltreumano. Tutto è cambiato, ma veramente

#2 Oltredemocrazia. Conflitto con-senso progettuale

#3 Rivoluzione. No kings


#2 Oltredemocrazia. Conflitto con-senso progettuale

L’oltredemocrazia e noi

Tuttə concordano sulla crisi della democrazia. Noi abbiamo cercato di analizzare questa crisi attraverso la categoria dell’Oltredemocrazia, ma – consapevoli di non essere il centro del mondo – sentiamo il bisogno di allargare lo sguardo.

Dal nostro punto di osservazione, l’Oltredemocrazia è ciò che si colloca oltre la democrazia liberale, come tentativo di governo dell’Oltreumano. In Cina, invece, la non-democrazia è una continuità storica: un’esperienza radicata e non una rottura. Questo ci obbliga a pensare l’Oltredemocrazia non solo come fenomeno occidentale ma come categoria globale, segno di un passaggio di paradigma che assume forme diverse a seconda dei contesti.

Non è per forza qualcosa di negativo o nemico: dentro l’Oltredemocrazia convivono tensioni differenti, anche quelle che sentiamo nostre, nate da desideri concreti di maggiore democrazia diretta e radicate nel conflitto materiale. Per questo, per noi, si tratta di andare oltre le forme storiche della democrazia liberale.

Se, come abbiamo detto, il capitalismo dell’Oltreumano sta ridefinendo ruoli e istituzioni – persino il ruolo delle banche centrali – allora non possiamo esimerci dal porre il problema di come superare i vincoli del passato.

Nel caso della Cina, l’Oltredemocrazia si manifesta come prosecuzione di un percorso già tracciato. Non esiste lo stesso problema che abbiamo noi nel misurarci con il tramonto della democrazia liberale. Metaforicamente, oggi chi governa in Cina può affermare: “anche l’Occidente ha capito che con la democrazia liberale non si costruisce nulla”. In questo contesto, un partito che pianifica e decide appare funzionale ai nuovi meccanismi di accumulazione e governo – in breve, è funzionale al capitalismo dell’Oltreumano. Ma questo non significa che tutto funzioni, o che la felicità sia diffusa: anzi, ci torneremo più avanti, perché ci interessa osservare proprio le tensioni e le possibili fughe da quel controllo.

Per capire meglio, dobbiamo liberarci anche noi da impalcature mentali, organizzative e istituzionali che non reggono più l’urto del presente. L’Oltredemocrazia non è solo una tragedia da cui difendersi, ma una soglia da attraversare, una realtà già in atto che va guardata in faccia. Le forme della democrazia liberale non riescono più a leggere né a governare i conflitti che emergono, anche attraverso strumenti e tecnologie che sfuggono ai suoi codici.

Entrare nell’Oltredemocrazia significa avere il coraggio di porci la domanda: qual è la nostra Oltredemocrazia? Qual è il progetto, il fine, l’orizzonte?

Per non restaurare un passato idealizzato, dobbiamo iniziare a riempire questa categoria di dinamiche nuove e costituenti, che emergono da dove siamo, da ciò che facciamo, dentro le rotture in corso. Come non siamo per l’Oltredemocrazia meloniana, non siamo nemmeno mai statə sostenitorə della democrazia liberale. L’abbiamo contrastata per secoli. I suoi meccanismi di controllo ci stanno stretti, e la magistratura – con il suo tintinnio di catene – ci ha sempre fatto orrore.

Detto ciò, questa radicalità non ci impedisce di riconoscere che, in modo tattico, alcuni elementi di quel sistema abbiano rappresentato un argine utile. Pensiamo a quei giudici americani che, prima ancora delle piazze, hanno bloccato le derive giuridiche di Trump. O, in Italia, a chi si è opposto al protocollo meloniano sui rimpatri.

Queste contraddizioni, nel breve periodo, possono essere utili. E noi non ci nutriamo di ideologia cieca: sappiamo cogliere le sfumature e continueremo a farlo per costruire il nostro agire.

Controcorrente. Conflitto con-senso progettuale

Sappiamo che non si tratta di porre domande e attendere risposte già pronte. Si tratta di allargare il campo della ricerca, senza paura. Per farlo serve coraggio, serve capacità di andare controcorrente – non per spirito di contraddizione, ma per tracciare una direzione.

Serve una profonda sperimentazione nelle forme dell’iniziativa. In questa direzione, ci chiediamo se non valga la pena superare l’opposizione tra conflitto e consenso, utile in altri cicli di lotta per uscire dalla ritualità del conflitto fine a sé stesso. Forse oggi è più utile indagare il nesso tra conflitto e progetto. Recuperare un senso di progetto per determinare, in forma ibrida, mutevole e creativa, la dinamica del conflitto: un conflitto con-senso progettuale. La domanda da cui partire è semplice e radicale: cosa vogliamo raggiungere?

Da lì, si apre lo spazio per determinare le forme variegate della conflittualità, libere da ideologie e dogmi, agendo con gli strumenti dell’Oltreumano – a partire da quelli tecnologici.


Guerra e guerra civile

Oggi, parlare di conflitto significa iniziare a collocarsi tra guerra e guerra civile. È questo lo scenario in cui ci muoviamo. Non possiamo continuare a evocare il conflitto costituente – quello, ad esempio, delle costituzioni democratiche – senza riuscire ad attualizzarlo. Mentre restiamo proiettati sul passato, il resto del mondo vive in tempo reale questa dinamica. Il conflitto tra sottosistemi, per come si manifesta oggi, è già costituente di un mondo nuovo.

I bombardamenti americani in Iran parlano chiaro: non c’è più nemmeno la retorica dell’esportazione della democrazia. L’obiettivo è l’annientamento del nemico e l’imposizione di un modello fondato su interessi economici egemonici. Vince il più forte. E noi continuiamo ad augurarci che entrambi perdano, gli oligarchi USA e gli Ayatollah, e si facciano strada percorsi rivoluzionari dal basso come quello prospettato dal movimento curdo iraniano.

Il genocidio a Gaza non lascia spazio a interpretazioni: l’eliminazione del popolo palestinese è il fine esplicito. Le bombe israeliane parlano il linguaggio del dominio armato. Quelle statunitensi non portano più alcuna pretesa universalista: sono parte del progetto MAGA, che non è più solo americano ma si riflette su molti attori della regione, tutt’altro che ostili a quel modello. È una visione del mondo che si impone, e che trova consenso trasversale, dentro e fuori l’Occidente. Chissà che prima o poi anche gli Ayatollah non ne apprezzino il valore. 

Vedremo come andrà: finora Trump ha mostrato di saper rigirare bene la frittata e adattarsi ai tempi che mutano. Ma non è detto che il gioco regga anche in casa, considerato il contesto da guerra civile che raccontano lə compagnə statunitensi. 

Di fronte a questo caos imprevedibile in cui gioca un ruolo esplicito l’uso della forza, il sistema del diritto internazionale e delle Nazioni Unite è ormai crollato. Gli appelli delle agenzie ONU al rispetto della vita də palestinesi e dei civili coinvolti nei conflitti cadono nel vuoto; il loro ruolo è screditato e, in alcuni casi, vengono persino considerati obiettivi da colpire militarmente. Oggi, chiunque invochi i diritti umani viene travolto dalla rapidità con cui i sottosistemi di potere aprono nuove guerre contro altri poteri e popolazioni civili. 

Nell’Oltredemocrazia, anche la guerra è strumento costituente. È uno dei pezzi che compongono il puzzle della rivoluzione dall’alto. Per questo, se vogliamo stare nel presente senza esserne travolti, dobbiamo tornare alla domanda fondamentale: quale progetto accompagna il nostro conflitto?

Per rispondere a nuove domande servono nuove lenti. Abbiamo detto che il mondo non è più unipolare: è attraversato da una competizione tra sottosistemi che si contendono spazi di potere in un contesto di caos sistemico. 

Andiamo dove abbiamo stretto rapporti e conosciamo meglio il terreno: l’Ucraina. Da un lato c’è l’iniziativa del sottosistema oligarchico russo che invade l’Ucraina; dall’altro, la risposta – con tutte le sue contraddizioni – della parte ucraina che si oppone. Una resistenza che nasce da un paese storicamente attraversato da dominazioni contrapposte, bruciato dal fallimento sovietico e corteggiato dalle democrazie liberali. Un paese su cui si giocano interessi geopolitici più grandi, a cominciare da quelli europei.

Come non vedere che quanto accade in Ucraina parla anche a noi? Prendiamo l’operazione Ragnatela: l’attacco compiuto dai servizi segreti ucraini con droni lanciati da camion all’interno del territorio russo, in grado di colpire aerei militari all’avanguardia in cinque basi. Partiamo da qui per alcune riflessioni.

Viviamo in un mondo in cui tutti fanno uso della forza. Come sempre, da Spartaco ai Vietcong, c’è chi resiste e affronta il nemico, facendo i conti con i rapporti di forza. E, quando serve, usando la forza.

Se non iniziamo a porci anche noi questo problema, rischiamo di non incidere mai sul reale. Allora, perché non indagare che tipo di risposta è possibile per chi è percepito come la parte debole? Come, attraverso i droni e l’intelligenza distribuita, l’Ucraina ha saputo costruire una risposta efficace?

Lasciamo da parte per un attimo che si tratti di una guerra tra Stati – anche se la dinamica non è certo quella di due eserciti alla pari. Qui assistiamo alla classica sproporzione di forze, dove la controparte deve adeguarsi e rispondere in modo asimmetrico, come fecero i Vietcong. Operazioni come Ragnatela e l’autocostruzione e l’utilizzo popolare di droni FPV, sono esperienze interessanti da osservare. Non sono forse nuove forme di guerriglia?

Chi oggi si definisce “di sinistra”, può davvero ignorare che, con poche centinaia di euro, si possa neutralizzare un arsenale bellico di ultima generazione da milioni di euro? Non si tratta di esaltazione della guerra, ma di comprensione della tecnica che nasce dall’oppressione e delle sue implicazioni nei nuovi conflitti.