Al momento stai visualizzando Difetto di parola

Difetto di parola

  • Autore dell'articolo:
  • Categoria dell'articolo:In testa

Parlare è un atto che diventa politico quando lo si fa in spazi pubblici. Farlo sommessamente e con spirito di servizio è sintomo di buona educazione ed indice di rispetto per chi lotta ed è generoso protagonista dei processi di movimentazione sociale all’alba di un nuovo Evo in cui i rapporti di forza tra le classi sono in netto vantaggio per il potere.

Parlare e dire la propria è, nelle intenzioni, contribuire allo sviluppo della discussione che è tale se è vera e non viziata dal politichese o dalla malattia per la quale essere d’accordo è condizione preliminare per contribuire.

Questa premessa è dovuta, e serve per circoscrivere la condivisione di un’opinione, di un punto di vista differente sulle mobilitazioni e sulle parole che da esse scaturiscono o vi si riferiscono, più spesso.

In primis, chi è il nostro nemico. Esso è quello di sempre, il nemico è il capitalismo, il suo ordine sociale, i suoi apparati statuali ed ideologici.

Se è quello di sempre, non significa però che è uguale per sempre, anzi, esso cambia, innova e si innova, muta, si ridefinisce, si allarga, si muove sui cicli lunghi della produzione e riproduzione sociale. Noi lo facciamo muovere, le nostre lotte sono uno dei più importanti vettori di cambiamento evolutivo del capitalismo, che è infatti innanzitutto una relazione.

I cicli di lotta lo hanno costretto a cambiare, pensiamo alle lotte dei Trenta Gloriosi, alla rottura del fordismo, della valorizzazione unicamente all’interno degli impianti industriali, al sovvertimento della legge del tempo – lavoro.

Siamo arrivati al post- fordismo, perchè il fordismo era semplicemente saltato per aria.

Abbiamo vinto? Mah, non direi. Abbiamo perso? Non credo, in fin dei conti chi vorrebbe tornare al lavoro alla catena?

In ogni caso il bilancio si fa alla fine di una storia e noi non abbiamo ancora finito la nostra.

Questo punto mi sta a cuore, esistono i periodi, i cicli, le fasi. Le epoche e le ere.

Da qualche tempo noi, i Municipi sociali, insistiamo nel dire che siamo in un nuova Era ed all’alba dell’Evo dell’oltre umano, ne abbiamo già scritto e non vi torno sopra ora.

Voglio specificare che se è vero che identificare le cesure puntuali nei processi storici è davvero complicato, è assurdo non riconoscere che esistono fasi tra loro distinte.

Ora il governo del mondo è multipolare, l’algoritmo del comando finanziario è diffuso in tutto il mondo  – anche nello spazio – e strutturato in sottosistemi, ognuno dei quali ha forma imperiale differente, contende alle altre spazi e collocazione nelle lunghe filiere della valorizzazione, la risultante della negoziazione in essere è l’equilibrio mobile e fragile che caratterizza il tempo di oggi, ibrido di pace e guerra.

Quale è la forma capitale egemonica in ogni sottosistema? Il fondo di investimento. Lo utilizzano in Qatar, in Arabia, in Cina, in Russia, in Turchia, in USA, in Europa, in India, in Brasile, in Sud Africa.

Il capitalismo finanziario ed i suoi fondi sono regime e metodo di tutti questi sottosistemi; può fare le operazioni in lire turche o dollari, mandare le distinte di pagamento in cirillico o arabo, può indossare il velo o fare la pipì in bagni gender free, ma di capitalismo finanziario si tratta. E quindi è nostro nemico.

Come siamo arrivati a questo punto? Lungo da scrivere e francamente forse siamo al di là delle capacità di chi scrive, ma di certo la lotta di classe è stata parte di questo sviluppo. Così come, se possiamo dire una cosa piuttosto acquisita nella nostra storia di parte, la crisi del brevissimo unipolarismo americano è dovuta anche al ciclo di lotte no global.

Ora gli USA – i suoi fondi, il suo soft power, il suo peso specifico- sono una parte non maggioritaria del sistema capitalistico, sono in crisi ed evidentemente non sono il soggetto che da solo determina o può determinare quanto accade nel mondo. I giri in aereo senza sosta e senza potere di interdizione di Blinken sono icona di questo difetto di potere; la crisi di rappresentanza del G7 un altro indizio.

Quanto ho scritto serve a puntualizzare che non è sempre colpa degli amerikani e che non sono buoni i rubli o i petrodollari mossi dal regime di Putin o dagli odiosi Emiri omofobi.

Facciamo un passo indietro e di lato. Possiamo identificare la fase del colonialismo come il secolare processo di rapina avvenuto tra il XVII ed il XIX secolo e concluso dai movimenti anticoloniali nel XX? La Battaglia di Algeri è del 1957, il Burkina Faso è indipendente dal 1960, Angola e Mozambico dal 1975, l’ANC governa il Sud Africa dal 1994.

Hanno vinto una battaglia decisiva. Non credo che non si possa riconoscere che questo processo storico abbia avuto una sua periodizzazione.

Le donne e gli uomini che ne sono stati protagonisti hanno lottato, vinto, si sono organizzati, hanno fatto scelte giuste, scelte sbagliate, ma hanno preso in mano il loro destino. E se non vogliamo avere uno sguardo “paternalista”, dobbiamo riconoscere la loro soggettività.

Se no è come se continuassimo ad affermare che gli unici che possono aver sognato di praticare il cambiamento sono/siamo i bianchi mentre altri non possono neanche aver tentato, come se fossero incapaci di essere soggetti, di cambiare la realtà. È come se li stigmatizzassimo come solo condannati a subire. Se ci riflettiamo in maniera provocatoria possiamo dire che facendo così, siamo razzisti.

Le lotte anticoloniali ci sono state, potenti, vissute. Se oggi in quei luoghi la situazione non è certo rose e fiori -andrebbe indagato perchè senza attribuire di nuovo la responsabilità a cause solo esogene- non lo è neppure da noi.

Se questo è vero allora dobbiamo mettere in crisi l’abuso delle parafrasi “post- coloniale” e “de-coloniale”.

Esiste un piano autonomo oggi dei territori dei sottosistemi diversi da Europa e USA, con tutte le loro contraddizioni, senza che tutto possa essere spiegato con una dipendenza diretta e mai risolta con il colonialismo.

Viceversa, se analizziamo il rapporto tra sottosistemi dobbiamo andare in profondità a capire le linee di faglia, i nodi dello scontro, gli elementi in gioco, senza pensare che tutto sia fermo al secolo passato.

In india Modi governa in nome del suprematismo indù. In America Trump cresce nei sondaggi con il suprematismo bianco. In Turchia Erdogan reprime le popolazioni curde. In Arabia Saudita, e nel resto dei paesi del Golfo i migranti asiatici e africani fanno da schiavi degli emiri. In Cina gli Uiguri se la passano veramente male. In Thailandia le donne cambogiane sono schiave sessuali etc … etc… 

In questi mesi Israele ha reagito all’attacco del 7 Ottobre di Hamas con una ferocia senza precedenti, la devastazione di Gaza è una vergogna che indigna, non solo tutte le persone scese in piazza in tutto il mondo in questi mesi, ma anche gli israeliani all’opposizione di quel bandito criminale di Bibì e contro la quale si sono mobilitati anche tanti ebrei e gruppi anti-sionisti.

Possiamo definire l’attuale resistenza palestinese come Nuova Intifada? No.

La prima e seconda Intifada, raffigurate con l’immagine del bambino palestinese con la fionda contro i carri-armati israeliani, innervate dalla lotta dei Comitati popolari contro l’occupazione ed anche contro la corruzione della dirigenza palestinese, hanno avuto inizio e fine precisi, una loro genealogia, una loro conclusione, Marhaw Barghouti, che incarnava l’idea che quel che era successo in Sudafrica potesse succedere anche in Palestina, purtroppo è in carcere dal 2002. Oggi siamo nel 2024 e la resistenza palestinese ha caratteristiche diverse dalle intifade di allora. Ci sono state le primavere arabe, con tutte le loro contraddizioni e la grande capacità dell’islam politico, radicale e moderato, di sfruttare a proprio vantaggio la situazione. E sarebbe miope non vedere che oggi si gioca una partita di alto livello e mai vista prima di nuovi attori regionali, tant’è che il Qatar è luogo in cui vi sono le suite della direzione in esilio di Hamas, partono i budget per finanziarla, vi è la TV che ha gli inviati in loco, ed è la sede, insieme al Cairo, dei colloqui per il cessate il fuoco, e nello stesso tempo ospita la più importante base militare USA della regione.

Nella nostra Europa, in Ucraina, si continua a praticare il diritto di resistenza all’invasione russa ed all’aggressività neo- coloniale di Putin. Perchè abbiamo insistito molto, nella pratica e nelle parole, in favore della resistenza ucraina? Perchè siamo per l’Europa, come matriottisti europei riteniamo strategico difendere la sovranità europea. E forse se indagassimo l’insurrezione in corso in Georgia, dove molti giovani portano la bandiera blue dell’UE, torneremmo ad innamorarci del progetto politico europeista. Senza una tensione rivoluzionaria e costituente nello e per lo spazio europeo siamo confinati nel terzomondismo.

Il mondo nuovo in cui operiamo ci spinge a forzare noi stessi ad ingaggiarlo fino in fondo, con determinazione e senza paura di lasciare le cassette degli attrezzi delle teorie dei cicli di lotta precedenti. Teniamone il metodo, facciamone tesoro: l’analisi della tendenza, il principio di contraddizione, l’analisi composizionista, il gusto dell’azzardo, l’ambizione di vincere e conquistare il potere schiacciando il nemico.

Questo è l’insegnamento. Le nuove teorie devono farsi carico di partire dalla realtà materiale ed aiutarci a rivoluzionarla, non ci devono mettere a letto la sera  con una tisana ayurvedica.

Detto come chiosa, la destra dei sottosistemi capitalistici ha una caratteristica piuttosto omogenea: cavalca la fase con spirito aggressivo e rivoluzionario, non fa prigionieri, non rispetta la leggi, pratica la guerra civile, usa l’IA per confermare il proprio potere.

Fa quello che avremmo fatto noi anni fa.

Possiamo essere da meno? Non ci salverà il claim del passato e la difesa dell’ordine costituito, né la sua legalità, puro feticcio.

Ci servono dispositivi di sapere materialistici che ci portino a questo livello di scontro, per vincerlo.