Per imparare a muoversi nel (dis)ordine del mondo multipolare
Il 7 ottobre 2023, come il 22 febbraio 2022 o il 9 marzo 2020, sono date che difficilmente dimenticheremo. Date che segnano il tempo della storia che si è rimessa in movimento. Come lo scoppio della pandemia e l’invasione russa dell’Ucraina, anche il divampare del confitto tra Israele e Palestina ci ha lasciato a bocca aperta, soprattutto considerando la punizione genocida da parte dello stato israeliano nella Striscia di Gaza, dove la popolazione palestinese viene decimata da più di tre mesi. Le atrocità dei bombardamenti e la violenza perpetuata delle forze militari israeliane hanno provocato fino ad oggi più di 25 mila vittime e quasi 2 milioni di sfollati. Inorridiamo davanti alla brutalità degli attacchi sui civili a Gaza, alla repressione e violenze nei confronti dei cittadini palestinesi in Israele e Cisgiordania, e al contesto di disumanizzazione delle vite di arabi e musulmani in Palestina, frutto di un progetto coloniale e nazionalista quale è il sionismo. La violenza efferata degli attacchi israeliani non può essere giustificata come reazione legittima. Siamo al fianco delle persone palestinesi e con tutte le voci che richiedono un immediato cessate il fuoco.
La fase storica è nuova con attori statuali (e non) che rivendicano identità culturali millenarie o di elezione divina, vecchi stati-nazione, imperi e multinazionali. Anche per questo non si può più ridurre il discorso a concetti come il bi-polarismo o utilizzare categorie riduttive come nord-sud o oriente-occidente. Questo vale per tutte le guerre in corso. Si stanno sviluppando sotto-sistemi di varia natura e nessuno dei principali attori vuole stare fuori dalle dinamiche di appropriazione di potere. Ogni sotto-sistema compete per “guadagnare” il suo posto nell’algoritmo di comando finanziario e la contesa è situata in una dimensione ibrida delle tecnologie, che prevede l’utilizzo di satelliti, intelligenze artificiali, computer quantistici, droni, nanotecnologie. Le guerre si sviluppano in queste dimensioni al di là del potere tecnologico che si detiene. Basti pensare alle tecniche artigianali, ma comunque innovative, usate da Hamas per organizzare l’offensiva del 7 ottobre, o agli attacchi con droni e missili degli Ansar Allah dello Yemen nel Mar Rosso.
Nelle società divise in cui viviamo, lo scoppio di crisi non fa che polarizzare le posizioni di chi già le ha – verità rivelate e annesso perseguimento dei propri scopi politici. Questa dinamica favorisce un ragionamento campista basato su valutazioni emotive che finiscono spesso con il tifo e la giustificazione degli eccessi, se commessi dalle “fazioni” amiche. Questo tipo di pensiero è per definizione contro-rivoluzionario, dal momento che rischia di offuscare l’obiettivo di emancipazione della nostra società, e inoltre fa perdere di vista la materialità della sofferenza e la brutalità di chi la produce. Abbiamo bisogno quindi di rintracciare un pensiero eretico, per liberarci dalle verità eterne, ed etico, per non tollerare indiscriminatamente ciò che succede, per orientarsi nelle continue svolte della storia e far emergere dal basso nuove posizioni e categorie di analisi utili a sostenere chi lotta per una società democratica e libera da ogni forma di sfruttamento e oppressione.
Nel mondo multipolare camminiamo domandando, puntando lo sguardo verso una possibile teoria del cambiamento.
Proponiamo di sviluppare la discussione a partire da due assi di ragionamento. Partiamo dal diritto di resistenza come forma minima di autodeterminazione di una popolazione per difendersi dall’oppressione ed affermare la propria esistenza. Un diritto “sacro” di cui non stabiliamo noi le forme e a cui vi contribuiscono anche parti di società a noi non sempre alleate. La sua legittimità tuttavia non può essere messa in discussione. Possono invece essere messi in discussione i fini, i principi, le tendenze politiche dei soggetti attivi in tale resistenza, per far sì che gli esiti non siano già scritti. La resistenza è quindi un campo di contesa politica che bisogna imparare ad attraversare nonostante le contraddizioni, uno spazio di possibilità al cui interno dobbiamo essere capaci di stare per non scomparire nel mondo che verrà, come ci insegnano le compagne ucraine incontrate negli ultimi due anni o le realtà palestinesi che abbiamo supportato negli ultimi decenni. Il tema quindi è il risultato del conflitto – anche armato – che deve essere sempre oggetto di una lucida valutazione politica.
Perciò la resistenza non è sufficiente se non inserita in un quadro più ampio di teoria del cambiamento che indirizzi le azioni per la sopravvivenza verso un progetto politico sostenibile. Il confederalismo democratico rappresenta al momento il nostro unico riferimento esistente che propone e costruisce questa alternativa, e quindi anche il nostro secondo asse di discussione. Tuttavia, non crediamo che l’esperienza democratica dell’Amministrazione Autonoma del Nord-Est della Siria possa essere assunta a panacea di tutti i mali. Come le compagne curde non si stancano di ricordare, è urgente e necessario sviluppare un ragionamento astraibile dalle particolarità regionali e applicabile a diverse latitudini, facendo i conti con le proprie contraddizioni e caratteristiche locali/globali.
All’interno di questa trama, e sollecitatə dai conflitti emergenti, individuiamo quindi alcuni temi controversi su cui ragionare e da mettere a verifica anche nelle nostre geografie.
Come affermare – e sostenere – un diritto alla resistenza che sia in grado di discernere tra le scelte di guerra strategiche accettabili sul campo di contesa e il limite da non superare per non ritrovarsi dalla parte dei persecutori?
Come leggere il colonialismo oltre il binarismo “occidente-resto del mondo” e che valore attribuire al paradigma decoloniale che oggi sembra aver perso il potere evocativo di liberazione di qualche decennio fa?
Se la decolonizzazione non apre più spazi di libertà e il socialismo ha perso la sua forza trainante, come relazionarsi con società che identificano la propria emancipazione nel quadro della liberazione nazionale?
E’ possibile e auspicabile riappropriarsi del concetto di “nazione”, risignificandolo in termini democratici? Qual è il ruolo che assumono le culture nazionali all’interno di questa riflessione?
Quali sono i modelli sociali ed economici che rifiutiamo oltre al sistema capitalista neoliberale? Come ci posizioniamo, per esempio, nei confronti dell’Islam Politico (meglio, degli Islam Politici) spesso presentato come una delle poche alternative politiche per molte delle società non-occidentali?
Nei prossimi appuntamenti dei Pensieri eretici affronteremo queste e le altre domande che emergeranno nella ricerca militante di una teoria del cambiamento.
- Colonialismo e violenza in Palestina: quale interpretazione democratica del concetto di nazione? – 1/02 h 18.30 @Làbas
Davide Grasso – docente dell’Università di Torino
Ruba Salih – docente dell’Università di Bologna
- Voci dissidenti contro l’occupazione – 8/02 h 18.30 @Làbas
Ariel Bernstein – attivista di Breaking the Silence
Federica Stagni – ricercatrice della Scuola Normale Superiore